Capitolo III°
Arte e Cultura > Narrativa > Canne al vento (G. Deledda)
CAPITOLO III°
Invano però nei giorni
seguenti e per intere settimane le dame Pintor aspettarono il nipote.
Donna Ester fece il pane
apposta, un pane bianco e sottile come ostia, quale si fa solo per le feste, e
di nascosto dalle sorelle comprò anche un cestino di biscotti. Dopo tutto era
un ospite, che arrivava, e l'ospitalità è sacra.
Donna Ruth a sua volta
sognava ogni notte l'arrivo del nipote, e ogni giorno verso le tre, ora
dell'arrivo della diligenza, spiava dal portone. Ma l'ora passava e tutto restava
immoto intorno.
Ai primi di maggio donna
Noemi rimase sola in casa perché le sorelle andarono alla festa di Nostra
Signora del Rimedio, come usavano tutti gli anni, da tempo immemorabile, per
penitenza, dicevano, ma anche un poco per divertimento.
Noemi non amava né l'una
né l'altro, eppure, mentre sedeva all'ombra calda della casa, in quel lungo
pomeriggio luminoso, seguiva col pensiero nostalgico il viaggio delle sorelle.
Rivedeva la chiesetta
grigia e rotonda simile a un gran nido capovolto in mezzo all'erba del vasto
cortile, la cinta di capanne in muratura entro cui si pigiava tutto un popolo
variopinto e pittoresco come una tribù di zingari, il rozzo belvedere a
colonne, sopra la capanna destinata al prete, e lo sfondo azzurro, gli alberi
mormoranti, il mare che luccicava laggiù fra le dune argentee. Pensando a
queste dolci cose, Noemi sentiva voglia di piangere, ma si morsicava le labbra,
vergognosa davanti a se stessa della sua debolezza.
Tutti gli anni la
primavera le dava questo senso d'inquietudine: i sogni della vita rifiorivano
in lei, come le rose fra le pietre dell'antico cimitero; ma ella capiva che era
un periodo di crisi, un po' di debolezza destinata a cessare coi primi calori
estivi, e lasciava che la sua fantasia viaggiasse, spinta dalla stessa calma
sonnolenta che stagnava attorno, sul cortile rosso di papaveri, sul Monte ombreggiato
dal passaggio di qualche nuvola, sull'intero villaggio metà dei cui abitanti
era alla festa.
Eccola dunque col pensiero
laggiù.
Le par d'essere ancora
fanciulla, arrampicata sul belvedere del prete, in una sera di maggio. Una
grande luna di rame sorge dal mare, e tutto il mondo pare d'oro e di perla. La
fisarmonica riempie coi suoi gridi lamentosi il cortile illuminato da un fuoco
d'alaterni il cui chiarore rossastro fa spiccare sul grigio del muro la figura
svelta e bruna del suonatore, i visi violacei delle donne e dei ragazzi che
ballano il ballo sardo. Le ombre si muovono fantastiche sull'erba calpestata e
sui muri della chiesa; brillano i bottoni d'oro, i galloni argentei dei costumi,
i tasti della fisarmonica: il resto si perde nella penombra perlacea della
notte lunare.
Noemi ricordava di non aver mai preso parte diretta alla festa, mentre le sorelle
maggiori ridevano e si divertivano, e Lia accovacciata come una lepre in un
angolo erboso del cortile forse fin da quel tempo meditava la fuga.
La festa durava nove
giorni, di cui gli ultimi tre diventavano un ballo tondo continuo accompagnato
da suoni e canti: Noemi stava sempre sul belvedere, tra gli avanzi del
banchetto; intorno a lei scintillavano le bottiglie vuote, i piatti rotti,
qualche mela d'un verde ghiacciato, un vassoio e un cucchiaino dimenticati;
anche le stelle oscillavano sopra il cortile come scosse dal ritmo della danza.
No, ella non ballava, non rideva, ma le bastava veder la gente a divertirsi
perché sperava di poter anche lei prender parte alla festa della vita.
Ma gli anni eran passati e
la festa della vita s'era svolta lontana dal paesetto, e per poterne prender
parte sua sorella Lia era fuggita da casa...
Lei, Noemi, era rimasta
sul balcone cadente della vecchia dimora come un tempo sul belvedere del prete.
Verso il tramonto qualcuno
batté al portone ch'ella teneva sempre chiuso.
Era la vecchia Pottoi che
veniva per domandarle se occorrevano i suoi servizi; benché Noemi non la
invitasse a restare sedette per terra, con le spalle al muro, sciogliendosi il
fazzoletto sul collo ingemmato, e cominciò a parlare con nostalgia della festa.
"Tutti son laggiù;
anche i miei nipotini, Nostra Signora li aiuti. Ah, tutti son laggiù e han
fresco, perché vedono il mare..."
"E perché non siete
andata anche voi?"
"E la casa,
missignoria? Per quanto povera, una casa non deve esser mai abbandonata del
tutto: altrimenti ci si installa il folletto. I vecchi rimangono, I giovani
vanno!"
Sospirò, curvando il viso
per guardarsi e aggiustarsi i coralli sul petto, e raccontò di quando anche lei
andava alla festa con suo marito, sua figlia, le buone vicine. Poi sollevò gli
occhi e guardò verso l'antico cimitero.
"Di questi giorni mi
par di rivedere tutti i morti risuscitati. Tutti andavano a divertirsi, laggiù.
Mi sembra di rivedere la madre di vossignoria, donna Maria Cristina, seduta
sulla panca all'angolo del grande cortile. Sembrava una regina, con la gonna
gialla e lo scialle nero ricamato. E le donne di tanti paesi le stavano sedute
intorno come serve... Essa mi diceva: Pottoi, vieni, assaggia questo caffè;
cosa ti pare, è buono? Sì, così umile era. Ah, per questo non amo neppure
tornare laggiù; mi pare che ci ho lasciato qualche cosa e che non la ritroverei più..."
Noemi assentì vivacemente,
con la testa reclinata sul lavoro; la voce della vecchia le sembrava l'eco del
suo passato.
"E don Zame,
missignoria? Era l'anima della festa. Gridava, spesso, sembrava la burrasca, ma
in fondo era buono. L'arcobaleno c'è sempre, dietro la tempesta. Ah, sì,
proprio in questi giorni, quando sto seduta giù a filare, mi sembra di sentire
un passo di cavallo... Eccolo, è lui che va alla festa, sul suo cavallo nero,
con le bisacce piene... Passa e mi saluta: Pottoi, vieni in groppa? Su, mala
fata!"
Ella rifaceva commossa la
voce del nobile morto; poi, a un tratto, seguendo I suoi pensieri, domandò:
"E questo don
Giacintino non arriva più?".
Noemi s'irrigidì, perché
non permetteva a nessuno di immischiarsi nei fatti di casa sua.
"Se verrà ch'egli sia
il benvenuto", rispose fredda; ma andata via la vecchia riprese il filo
dei suoi pensieri. Riviveva talmente nel passato che il presente non la
interessava quasi più.
A misura che l'ombra calda
della casa copriva il cortile e l'odore dell'euforbia arrivava dalla pianura,
ricordava più intensamente la fuga di Lia. Ecco, è un tramonto come questo: il monte bianco e verde incombe sulla casa, il cielo è tutto d'oro. Lia sta su
nelle camere di sopra e vi si aggira silenziosa; s'affaccia al balcone,
pallida, vestita di nero, coi capelli scuri che par riflettano un pò l'azzurro
dorato del cielo; guarda laggiù verso il castello, poi d'improvviso solleva le
palpebre pesanti e si scuote tutta agitando le braccia. Pare una rondine che sta per
spiccare il volo. Scende, va al pozzo, innaffia i fiori, e mentre il profumo
dolce della violacciocca si mesce all'odore acre dell'euforbia, le prime stelle
salgono sopra il Monte.
Lia va a sedersi sull'alto
della scala, con la mano sulla corda, gli occhi fissi nella penombra.
Noemi la ricordava sempre
così, come l'aveva veduta l'ultima volta passandole accanto per andare a letto.
Dormivano assieme nello stesso letto, ma quella sera ella l'aveva attesa
invano.
S'era addormentata aspettandola e ancora l'aspettava...
Il resto le si confondeva
nella memoria: ore e giorni d'ansia e di terrore misterioso come quando si
ha la febbre alta... Rivedeva solo il viso livido e contratto di Efix che si
curvava a guardare per terra quasi cercasse un oggetto smarrito.
"Padrone mie, zitte,
zitte!", mormorava, ma egli stesso era poi corso per il paese domandando a
tutti se avevano veduto Lia; e si curvava a guardare entro i pozzi, e spiava le
lontananze.
Poi era tornato don Zame...
A questo ricordo un
fragore di tempesta echeggiava nella memoria di Noemi; ogni volta ella sentiva
il bisogno di muoversi, come per rompere un incubo.
S'alzò dunque e salì nella
sua camera, la stessa ove un tempo dormiva con Lia: lo stesso letto di ferro
arrugginito a foglie d'oro stinte, a grappoli d'uva di cui solo qualche acino
conservava come nei grappoli veri acerbi un po' di rosso e di violetto, le stesse pareti imbiancate con la
calce, i quadretti con cornici nere, con antiche stampe di cui nessuno in casa
conosceva il valore, lo stesso armadio tarlato, sopra la cui cornice arance e
limoni in fila luccicavano al tramonto come pomi d'oro.
Noemi aprì l'armadio per
rimettere il lavoro, e il cardine stridette nel silenzio come una corda di
violino, mentre il sole già senza raggi gettava un chiarore roseo sulla
biancheria disposta sulle assi rivestite di carta turchina.
Tutto era in ordine là
dentro: in alto alcune trapunte logore, tappeti di seta, coperte di lana che il
lungo uso aveva ingiallito come lo zafferano: più giù la biancheria odorosa di
mele cotogne, e canestrini di asfodelo e di giunchi sul cui sfondo giallino si
disegnavano in nero i vasi, i pesci, gl'idoletti dell'arte sarda primitiva.
Noemi rimise il suo lavoro
entro uno di questi canestrini, e ne sollevò un altro: sotto c'era un plico di
carte, le carte di famiglia, gli stromenti, i legati, gli atti di una lite,
stretti forte da un nastrino giallo contro il malocchio. Il nastrino giallo che
non aveva impedito alle terre di passare in altre mani e alla lite di esser vinta
dagli avversari, legava alle carte morte una lettera che Noemi, ogni volta che
sollevava il panierino, guardava come si guarda dalla riva del mare il cadavere
di un naufrago respinto lentamente dall'onda.
Era la lettera di Lia dopo
la fuga.
Quel giorno Noemi aveva
come il male del ricordo: la lontananza delle sorelle e un'istintiva paura
della solitudine la riconducevano al passato. Lo stesso chiarore aranciato del
crepuscolo, il Monte coperto di veli violetti, l'odore della sera, tutto le
ridestava l'anima di vent'anni prima. Silenziosa, nera nel chiarore tra la
finestruola e l'armadio, sembrava essa stessa una figura del passato, salita su
dall'antico cimitero per visitare la casa abbandonata.
Rimise in ordine le trapunte
e i cestini; chiuse, riaprì: l'armadio strideva e pareva la sola cosa viva
della casa.
Finalmente si decise e
strappò la lettera dal fascio di carte; era ancora bianca, entro la busta
bianca; sembrava scritta ieri e che nessuno ancora l'avesse letta.
Noemi sedette sul letto,
ma aveva appena svolto il foglio e messo una mano sul pomo d'ottone che
qualcuno picchiò, giù: prima un colpo, poi tre, poi incessantemente.
Ella sollevò la testa,
guardando verso il cortile con occhi spaventati.
"Il postino non può
essere: è già passato..."
I colpi echeggiavano nel
cortile silenzioso: così picchiava suo padre quando tardavano ad aprirgli...
Abbandonò la lettera e
corse giù, ma arrivata al portone si fermò ad ascoltare: il cuore le batteva
come se i colpi arrivassero al petto.
"Signore! Signore!
Non può esser lui..."
Finalmente domandò un po'
aspra: "Chi è?".
"Amici", rispose
una voce straniera.
Ma Noemi non riusciva ad
aprire, tanto le tremavano le mani.
Un uomo giovane che pareva
un operaio, alto e pallido, vestito di verde, con le scarpe gialle polverose e
i piccoli baffi in colore delle scarpe, stava davanti al portone appoggiato a
una bicicletta. Appena vide Noemi si tolse il berretto che lasciava l'impronta
sui folti capelli dorati, e le sorrise mostrando i bei denti fra le labbra
carnose.
Ella lo riconobbe subito
agli occhi, occhi grandi a mandorla, d'un azzurro verdognolo; erano ben gli
occhi dei Pintor, ma il suo turbamento aumentò quando lo straniero balzato
sugli scalini del portone la strinse forte fra le sue braccia dure.
"Zia Ester! Sono
io... E le zie?"
"Sono Noemi...",
ella disse un poco umiliata: ma tosto s'irrigidì. "Non ti aspettavamo.
Ester e Ruth sono alla festa..."
"C'è una
festa?", egli disse tirando su la bicicletta a cui era legata una valigia polverosa.
"Ah, sì, ricordo: la festa del Rimedio. Ah, ecco..."
Gli sembrava di
riconoscere il luogo dov'era. Ecco il portico tante volte ricordato da sua madre:
egli vi spinse la bicicletta e cominciò a slegare la valigia battendovi su un
fazzoletto per togliere la polvere.
Noemi pensava: "Bisogna
chiamare zia Pottoi, bisogna mandar da Efix... Come farò, sola? Ah, esse lo
sapevano che doveva arrivare, e mi han lasciata sola...".
L'abbraccio di quell'uomo
sconosciuto, arrivato non si sa da dove, dalle vie del mondo, le destava una
vaga paura; ma ella sapeva bene i doveri dell'ospitalità e non poteva
trascurarli.
"Entra. Vuoi lavarti?
Porteremo poi su la valigia: chiamerò una donna che ci fa I servizi... Adesso
son sola in casa... e non ti aspettavo..."
Cercava di nascondere la
loro miseria; ma pareva ch'egli conoscesse anche questa, perché senza attender
d'esser servito, dopo aver portato la valigia nella camera che zia Ester aveva
già preparato per lui, l'antica camera per gli ospiti, in fondo al balcone, ridiscese disinvolto e andò a lavarsi al pozzo come il servo.
Noemi lo seguiva con
l'asciugamano sul braccio.
"Sì, da Terranova,
son venuto. Che strada! Si vola! Sì, devo esser passato davanti alla chiesa, ma
non mi sono accorto della festa. Sì, il paese sembra deserto: è molto decaduto,
sì..."
Rispondeva sì a tutte le
domande di Noemi, ma pareva molto distratto.
"Perché non ho
scritto? Dopo la lettera di zia Ester stavo incerto. Poi sono stato anche
malato e... non sapevo... A dirvi la verità mi son deciso avantieri; c'era un
amico che partiva. Allora, ieri, visto che il mare era calmo, sono
partito..."
Asciugandosi, si dirigeva
verso la cucina. Noemi lo seguiva.
"Ester gli ha
scritto! E lui è partito, così, come alla festa!"
Egli sedette sull'antica
panca, di faccia al Monte che gettava la sua ombra violetta nella cucina,
accavalcò le lunghe gambe, incrociò sul petto le lunghe braccia palpandosele
con le mani bianche. Noemi osservò che le calze di lui erano verdi, un colore
strano davvero per calze da uomo, e accese il fuoco ripetendo fra se: "Ah,
Ester gli ha scritto di nascosto? Che se lo curi lei, adesso!".
E provava un vago timore a
voltarsi, a guardare quella figura d'uomo un po' tutta strana, verde e gialla,
immobile sulla panca dalla quale pareva non dovesse alzarsi più.
Ma egli ricominciò a
parlare del viaggio, della strada solitaria, e domandò quanto s'impiegava per
arrivare a Nuoro. Voleva recarsi a Nuoro: c'era lassù l'amministratore di un
molino a vapore, amico di suo padre, che gli aveva promesso un posto.
Noemi si sollevò
sorridente.
"Quanto ci vuole? Non
so dirtelo, quanto ci vuole in bicicletta. Poche ore. Io sono stata a Nuoro
molti anni fa, a cavallo. La strada è bella, e la città è bella, sì; l'aria è
buona, la gente è buona. Là non ci sono febbri, come qui, e tutti possono
lavorare e guadagnare. Tutti i forestieri son diventati ricchi, lassù, mentre,
qui, pare d'essere in luogo di morti..."
"Sì, sì, è
vero!"
Ella andò a prender le
uova per fare una frittata.
"Vedi, qui non c'è
neanche carne, tutti i giorni; di vino non se ne trova più... E questo
amministratore del molino, come si chiama? Tu lo conosci?"
No, egli non lo conosceva,
ma era certo che andando a Nuoro avrebbe ottenuto il posto.
Noemi sorrideva con rancore
e con ironia, curva a punger la frittata: si fa presto a dire che si trova un
posto! C'è tanta gente in cerca di posti!
"Ma tu hai lasciato
quello che avevi?", domandò in fretta senza sollevar gli occhi.
Giacinto non rispose
subito; pareva molto preoccupato per l'esito della frittata che ella rivoltava
cautamente.
Alcune gocce di olio
caddero sulle brace, inondando la cucina di fumo grasso; poi la padella riprese
a friggere tranquilla e Giacinto disse:
"Era una cosa tanto
meschina! E neppur sicura... Con tanta responsabilità! ...".
Non disse altro, e Noemi
non domandò altro. La speranza ch'egli se ne andasse presto a Nuoro la rendeva
buona e paziente. Apparecchiò la tavola nell'attigua camera da pranzo
abbandonata e umida come una cantina, e cominciò a servirlo scusandosi di non
potergli offrire altro.
"In questo paese
bisogna contentarsi..."
Giacinto schiacciava le
noci con le sue forti mani, tendendo l'orecchio al tintinnio delle greggi che
passavano dietro la casa. Era quasi notte; il Monte era diventato scuro e là
dentro in quell'umida stanza dalle pareti macchiate di verde pareva d'essere in
una grotta, lontani dal mondo.
Le descrizioni che Noemi
faceva della festa lo suggestionavano. Egli la guardava, un po' stanco e assonnato,
e quella figura nera sullo sfondo ancora lucido del finestrino, coi capelli
folti e le mani piccole appoggiate al tavolo melanconico, doveva ricordargli i
racconti nostalgici di sua madre, perché cominciò a domandar notizie di persone
del paese che erano morte o di cui Noemi non s'interessava affatto.
"Zio Pietro? Com'è
questo zio Pietro? È il più ricco, vero? Quanto può possedere?"
"È ricco, sì, certo:
ma è una testa! Superbo come un giudeo."
"Egli dà denari a
usura?"
Noemi arrossì, perché
sebbene le relazioni col cugino fossero tese, le sembrava un'ingiuria personale
dare dell'usuraio a un nobile Pintor.
"Chi te lo ha detto,
questo? Ah, non dirlo neanche per scherzo..."
"Il Rettore e la
sorella sono usurai davvero. Sono ricchi? Quanto posseggono?"
"Neanche loro, che
dici? Forse forse il Milese, ma un'usura giusta: il trenta per cento, non di
più..."
"È questa un'usura
giusta? Ah, com'è allora l'altra?"
Allora Noemi si curvò sul
tavolo e mormorò: "Anche il mille per cento... E anche di più, qualche
volta".
Ma invece di
meravigliarsi, Giacinto si versò da bere e disse pensieroso: "Sì, anche da
noi l'usura e diventata enorme... Il nipote del cardinale Rampolla si è
rovinato così! ...".
Dopo cena volle uscire.
Domandò dov'era la posta, e Noemi lo condusse fino alla strada, indicandogli la
piazzetta in fondo verso la casa del Milese.
Appena egli si fu
allontanato, ella si guardò attorno e scese fino alla casupola della vecchia
Pottoi. La porticina era aperta, ma dentro tutto era nero, e solo ai richiami
timidi di Noemi la vecchia s'avanzò dalla profondità scura della stamberga con
un tizzone acceso in mano. Il barlume rossastro faceva scintillare i suoi
gioielli.
"Zia Pottoi, sono io:
bisogna che mandiate subito qualcuno a chiamare Efix. È arrivato Giacinto. E
poi voi verrete a dormire con me. Ho paura a star sola... con un
forestiero..."
"Andrò a chiamare
qualcuno per mandarlo al podere. Ma io dalla vossignoria non vengo, no: la casa
non la lascio in balìa del folletto..."
E perché durante la sua
assenza il folletto non entrasse, lasciò il tizzone acceso sulla soglia della
porta.
