Capitolo IV°
Arte e Cultura > Narrativa > Canne al vento (G. Deledda)
Capitolo quarto
Un gran fuoco di
lentischi, come lo aveva veduto Noemi fanciulla, ardeva nel cortile di Nostra
Signora del Rimedio, illuminando i muri nerastri del Santuario e le capanne
attorno.
Un ragazzo suonava la
fisarmonica, ma la gente, ch'era appena uscita dalla novena e preparava la cena
o già mangiava entro le capanne, non si decideva a cominciare il ballo.
Era presto ancora: sul
cielo lucido del crepuscolo spuntavano le prime stelle, e dietro la torretta
del belvedere l'occidente rosseggiava spegnendosi a poco a poco. Una gran pace regnava su
quel villaggio improvvisato, e le note della fisarmonica e le voci e le
risate entro le capanne parevano lontane.
Qua e là davanti ai
piccoli fuochi accesi lungo i muri si curvava la figura nera di qualche donna
intenta a cucinare.
Gli uomini, venuti alla
vigilia per portare le masserizie, eran già ripartiti coi loro carri e i loro
cavalli: rimanevano le donne, i vecchi, i bambini e qualche adolescente, e
tutti, sebbene convinti d'esser là per far penitenza, cercavano di divertirsi
nel miglior modo possibile.
Le dame Pintor avevano a
loro disposizione due capanne fra le più antiche (tutti gli anni ne venivan
fabbricate di nuove) dette appunto sas muristenes de sas damas, perché divenute
quasi di loro proprietà in seguito a regali e donazioni fatte alla chiesa dalle
loro ave fin dal tempo in cui gli arcivescovi di Pisa nelle loro visite
pastorali alle diocesi sarde sbarcavano nel porto più vicino e celebravano
messe nel Santuario.
Ecco ancora, fra una
capanna e l'altra, all'angolo del cortile, il sedile di pietra addossato al
muro ove zia Pottoi aveva veduto donna Maria Cristina corteggiata come una
Barona da tutte le vassalle che si recavano in pellegrinaggio alla chiesa.
Adesso donna Ester e donna
Ruth sedevano umili e nere come due monache col fazzoletto bianco in testa e le
mani sotto il grembiale, pensando a Noemi lontana, a Giacinto lontano.
La loro cena era stata
frugale: una zuppa di latte che non gonfiava lo stomaco e lasciava il pensiero
lucido e puro come quel gran cielo di primavera. Eppure, di tanto in tanto,
donna Ester aveva come un brivido di rimorso, un pensiero segreto quasi
colpevole. Giacintino... la lettera scritta di nascosto... Accanto a loro,
seduta per terra con le spalle al muro e le braccia intorno alle ginocchia, Grixenda
rideva guardando il ragazzo che suonava la fisarmonica.
Nella capanna attigua le
parenti con cui ella era venuta alla festa cenavano sedute per terra attorno ad
una bertula3 stesa come tovaglia, e mentre una di esse cullava un bambino che
s'addormentava agitando le manine molli, l'altra chiamava la fanciulla.
"Grixenda, fiore,
vieni, prendi almeno un pezzo di focaccia! Cosa dirà tua nonna? Che t'abbiamo
lasciato morir di fame?"
"Grixenda, non senti
che ti chiamano? Obbedisci", disse donna Ester.
"Ah, donna Ester mia!
Non ho fame... che di ballare!"
"Zuannantò! Vieni a
mangiare! Non vedi che il tuo suono è come il vento? Fa scappar la gente."
"Aspetta che le otri
siano piene e vedrai!", disse l'usuraia, uscendo sulla porticina a destra
delle dame Pintor e pulendosi i denti con l'unghia.
Anche lei aveva finito di
cenare e per non perder tempo si mise a filare al chiarore del fuoco.
Allora fra lei, le dame,
la ragazza e le donne dentro cominciò la solita
conversazione: come al
paese durante tutto l'anno parlavano della festa, ora alla festa parlavano del
paese.
"Io non so come avete
fatto a lasciar la casa sola, comare Kallì; come?", disse una ragazza alta
che portava sotto il grembiale un vaso di latte cagliato, dono del prete alle
dame Pintor.
"Natòlia, cuoricino
mio! Io non ho lasciato in casa i tesori che ha lasciato in casa il tuo padrone
il Rettore!"
"Corfu 'e mazza a
conca!4 E allora datemi la chiave. Vado e frugo, in casa vostra, eppoi scappo
nelle grandi città!"
"Tu credi che nelle
grandi città si stia bene?", domandò donna Ruth con voce grave, e donna Ester
che aveva vuotato il vaso del latte e lo restituiva a Natòlia con dentro mezza
pezza di mancia, si fece il segno della croce: "Libera nos Domine".
Entrambe pensavano alla
stessa cosa, alla fuga di Lia, all'arrivo di Giacinto, e con sorpresa sentirono
Grixenda mormorare: "Ma se quelli che stanno nelle grandi città vogliono
venir qui!".
La gente cominciava ad
uscir nel cortile; sulle porticine apparivan le donne che si pulivan la bocca
col grembiale e poi rincorrevano i bambini per prenderli e metterli a dormire.
Una delle parenti di
Grixenda andò dal suonatore di fisarmonica e gli porse una focaccia piegata in
quattro.
"E mangia, gioiello!
Cosa dirà tua nonna? Che non ti do da mangiare?"
Il ragazzo sporse il viso,
strappò un boccone dalla focaccia e continuò a suonare. Ma nessuno si decideva a
cominciare il ballo tanto che Grixenda e Natòlia, irritate per
l'indifferenza delle donne, dissero qualche insolenza.
"Si sa! Se non ci
sono maschi non vi divertite!"
"Ci fosse almeno Efix
il servo di donna Ruth. Anche quello vi basterebbe!"
"È vecchio come le
pietre! Che me ne faccio di Efix? Meglio ballo con un ramo di lentischio!"
Ma d'un tratto il cane del
prete, dopo aver abbaiato sul belvedere, corse giù urlando fuori del cortile e
le donne smisero d'insolentirsi per andare a vedere.
Due uomini salivano dallo
stradone, e mentre uno stava seduto su un piccolo cammello, l'altro si piegava
su una grande cavalletta le cui ali parevano mandassero giù e su i lunghi piedi
del cavaliere. Il chiarore del fuoco, a misura che i due salivano, illuminava
però le loro figure misteriose; e la prima era quella di Efix su un cavallo
gobbo di bisacce e di guanciali, e l'altra quella di uno straniero la cui
bicicletta scintillò rossa attraversando di volo il cortile.
Grixenda balzò in piedi
appoggiandosi al muro tanto era turbata; anche la fisarmonica cessò di suonare.
"Donna Ester mia! Suo
nipote."
Le dame s'alzarono
tremando e donna Ester parlò con una vocina che pareva il belato d'un capretto.
"Giacintino!...
Giacintino!... Nipote mio... Ma non è una visione? Sei tu?..."
Egli era smontato davanti
a loro e si guardava attorno confuso: sentì le sue mani prese dalle mani secche
della zia, e sullo sfondo nero del muro vide il viso pallido e gli occhi di
perla di Grixenda.
Poi tutte le donne gli
furono attorno, guardandolo, toccandolo, interrogandolo: il calore dei loro
corpi parve eccitarlo; sorrise, gli sembrò d'esser giunto in mezzo ad una
numerosa famiglia, e cominciò ad abbracciare tutti. Qualche donna balzò
indietro, qualche altra si mise a ridere sollevando il viso a guardarlo.
"È costume del tuo
paese? Donna Ester, donna Ruth, ci ha scambiato con loro!
Ci crede tutte sue
zie!"
Efix intanto, tirati giù i
guanciali, li portò dentro la capanna vuota passando di traverso per la stretta
porticina. Grixenda lo aiutò a stenderli sul sedile in muratura, lungo la
parete, e fu lei a spazzar la celletta e a preparare il lettuccio, mentre
nell'altra capanna si udiva Giacintino rispondere rispettoso e quasi timido
alle domande delle zie.
"Sissignora, da
Terranova in bicicletta: cos'è poi? Un volo! Con una strada così piana e
solitaria si può girare il mondo in un giorno. Sì, la zia Noemi è rimasta, vedendomi:
non mi aspettava certo, e forse credeva che avessi sbagliato porta!"
Ogni sua parola e il suo
accento straniero colpivano Grixenda al cuore. Ella non aveva ben distinto il
viso del giovane arrivato da terre lontane, ma aveva notato la sua alta statura
e i capelli folti dorati come il fuoco. E provava già un senso di gelosia
perché Natòlia, la serva del prete, s'era cacciata dentro la capanna delle dame
e parlava con lui.
Com'era sfacciata,
Natòlia! Per piacere allo straniero si beffava persino delle capanne, che dopo
tutto erano sacre perché abitate dai fedeli e appartenenti alla chiesa.
"Neanche a Roma ci
son palazzi come questi! Guardi che cortine! Le han messe i ragni, gratis, per
amor di Dio."
"E i topi non li
conta? Se si sente grattare i piedi, stanotte, non creda che sia io, don
Giacì!"
Grixenda si morse le
labbra e picchiò sulla parete per far tacere Natòlia.
"Ci sono anche gli
spiriti. Li sente?"
"Oh, è una donna che
picchia!", disse semplicemente donna Ruth.
"Spiriti, topi e
donne per me son la stessa cosa", rispose Giacinto.
E Grixenda, di là,
appoggiata alla parete di mezzo, si mise a ridere forte.
Ascoltava la voce del
giovane come aveva poco prima ascoltato il suono della fisarmonica e rideva per
il piacere, eppure in fondo sentiva voglia di piangere.
Del resto tutti erano
felici, ma d'una felicità grave, nella vera capanna delle dame.
"Mi pare di
sognare", diceva donna Ester, servendo da cenare al nipote, mentre donna
Ruth lo guardava fisso con occhi lucidi, ed Efix traeva dalla bisaccia un
bariletto di vino, e pur così curvo si volgeva a sorridere ai suoi padroni.
Giacinto mangiava, seduto
sul sedile in muratura che serviva a più usi, da tavola e da letto: e credeva
anche lui di sognare.
Dopo l'accoglienza fredda
di Noemi s'era sentito ciò che veramente era, straniero in mezzo a gente
diversa da lui; ma adesso vedeva le zie servirlo premurose, il servo
sorridergli come ad un bambino, le fanciulle guardarlo tenere ed avide, -
sentiva la cantilena della fisarmonica, intravedeva le ombre danzanti al chiaro
del fuoco, e s'immaginava che la sua vita dovesse trascorrere sempre così,
fantastica e lieta.
"Adattarsi
bisogna", disse Efix versandogli da bere.
"Guarda tu l'acqua:
perché dicono che è saggia? Perché prende la forma del vaso ove la si
versa."
"Anche il vino, mi
pare!"
"Anche il vino, sì!
Solo che il vino qualche volta spumeggia e scappa; l'acqua no."
"Anche l'acqua, se è
messa sul fuoco a bollire", disse Natòlia.
Allora Grixenda corse là
dentro, prese per il braccio la serva e la trascinò via con sé.
"Lasciami! Che
hai?"
"Perché manchi di
rispetto allo straniero!"
"Grixè! Ti ha
morsicato la tarantola ché diventi matta?"
"Sì, e perciò voglio
ballare."
Già alcune donne s'eran
decise a riunirsi attorno al suonatore, porgendosi la mano per cominciare il
ballo. I bottoni dei loro corsetti scintillavano al fuoco, le loro ombre
s'incrociavano sul terreno grigiastro. Lentamente si disposero in fila, con le
mani intrecciate, e sollevarono i piedi accennando i primi passi della danza;
ma erano rigide e incerte e pareva si sostenessero a vicenda.
"Si vede che manca il
puntello! Manca l'uomo. Chiamate almeno Efix!", gridò Natòlia, e siccome
Grixenda la pizzicava al braccio aggiunse: "Ah, ti punga la vespa! Anche a
lui vuoi che si usi rispetto?".
Ma al grido Efix era
apparso e si avanzava battendo i piedi in cadenza e agitando le braccia come un
vero ballerino. Cantava accompagnandosi: A sa festa... a sa festa so andatu...
Arrivato accanto a
Grixenda le prese il braccio, si unì alla fila delle danzatrici e parve davvero animare con la sua presenza il
ballo: i piedi delle donne si mossero più agili, riunendosi, strisciando,
sollevandosi, i corpi si fecero più molli, i visi brillarono di gioia.
"Ecco il puntello.
Forza, coraggio!"
"E su! E su!"
Un filo magico parve
allacciare le donne dando loro un'eccitazione composta e ardente. La fila si
cominciò a piegare, formando lentamente un circolo: di tanto in tanto una donna
s'avanzava, staccava due mani unite, le intrecciava alle sue, accresceva la
ghirlanda nera e rossa dietro cui si muoveva la frangia delle ombre. E i piedi
si sollevavano sempre più svelti, battendo gli uni sugli altri,
percuotendo la terra come
per svegliarla dalla sua immobilità.
"E su! E su!"
Anche la fisarmonica
suonava più lieta ed agile. Grida di gioia echeggiarono, quasi selvagge, come
per domandare al motivo del ballo una intonazione più animata e più voluttuosa.
"Uhì! Uhiahi!"
Tutti eran corsi a vedere,
e là in fondo nell'angolo del cortile Grixenda distinse I capelli dorati di
Giacinto fra i due fazzoletti bianchi delle zie.
"Compare Efix, fate
ballare il vostro figlioccio!", disse Natòlia.
"Quello è un
puntello, sì!"
"Mettilo accanto alla
chiesa e ti sembrerà il campanile."
"E sta' zitta,
Natòlia, lingua di fuoco."
"Parlano più i tuoi
occhi che la mia lingua, Grixè."
"Il fuoco ti mangi le
palpebre!"
"E state zitte,
donne, e ballate."
A sa festa... a sa festa
so andatu...
"Uhì!
Uhiahi!..."
Il grido tremolava come un
nitrito, e le gambe delle donne, disegnate dale gonne scure, e i piedi corti
emergenti dall'ondulare dell'orlo rosso si movevan sempre più agili scaldati
dal piacere del ballo.
"Don Giacinto!
Venga!"
"E su! E su!"
"E venga! E
venga!"
Tutte le donne guardavano
laggiù sorridendo. I denti brillavano agli angoli delle loro bocche.
Egli balzò, quasi
sfuggendo alla prigionia delle due vecchie dame; arrivato però in mezzo al
cortile si fermò incerto: allora il circolo delle donne si riaprì, si allungò
di nuovo in fila, andò incontro allo straniero come nei giuochi infantili, lo
accerchiò, lo prese, si richiuse.
Messo in mezzo fra
Grixenda e Natòlia, alto, diverso da tutti, egli parve la perla nell'anello
della danza; e sentiva la piccola mano di Grixenda abbandonarsi tremando un
poco entro la sua, mentre le dita dure e calde di Natòlia s'intrecciavano forte
alle sue come fossero amanti.
Anche il prete uscì dalla
sua capanna, guardò qua e là, placido e rosso come un bambino ancora calvo, poi
andò a sedersi accanto alle dame Pintor.
"Bel ragazzo, suo
nipote, donna Ruth!"
Trasse la tabacchiera
d'argento, la scosse, l'aprì e la porse nel cavo della mano prima a donna
Ester, poi a donna Ruth, infine alla stessa Kallina.
"Bel ragazzo, donna
Ester, ma mi raccomando, attenzione."
Sollevò la sottana per
rimettersi in tasca la tabacchiera e ripiegò e arrotolò il suo fazzoletto
turchino, sbattendosene le cocche sul petto.
"Donna Ester,
attenzione. Del resto anche noi abbiamo ballato quando avevamo ali ai piedi. E
adesso che fa, vossignoria?"
Donna Ester piangeva di
gioia, ma finse di starnutire.
"Sembra pepe il suo
tabacco, prete Paskà!"
Il più felice di tutti era
Efix. Sdraiato su un mucchio d'erba, in una delle
muristenes vuote, gli
pareva ancora di ballare e di ammirare Giacinto. E gli sorrideva come gli
sorridevan le donne. Ecco, la figura del "ragazzo" aveva già preso
nella sua vita il miglior posto come nel circolo della danza.
E riandava col pensiero
fino al momento in cui era corso alla casa dei suoi padroni per vedere il
figlio di Lia: che momento! Era stata così forte la sua gioia che neppure si
rammentava che cosa aveva detto, che cosa aveva fatto.
Solo rivedeva la figura
fredda eppure inquieta di Noemi seguirlo e dirgli come in segreto: "Andate,
su, andate alla festa... Andate: vi aspettano".
E li aveva mandati via,
col viso rischiarato solo all'atto del congedo, su nella cornice del portone
che si chiudeva davanti a lei.
Passando sotto il
poderetto s'eran fermati un momento; ed Efix aveva additato con tenerezza
d'amante la sua collina, il ciglione ove le canne tremavano rosee al tramonto,
la capanna appiattata tra il verde ad aspettarlo.
"Io sto qui tutto
l'anno. E vossignoria verrà quando ci saran gli ortaggi e le frutta da portare
al paese... Ma il suo cavallo non sopporta la bisaccia!", aggiunse
socchiudendo gli occhi contro il barbaglio della bicicletta.
"Io me ne vado a
Nuoro!", disse Giacintino, pur guardando il podere di sotto in su come si
guarda una persona.
"Qualche volta verrà!
Prima che faccia troppo caldo, e poi in autunno si sta ene all'ombra, lassù! E
di notte? La luna ci fa compagnia come una sposa. E le angurie qua sotto l'orto
sembrano allora bocce di cristallo."
"Sì, qualche volta
verrò", promise Giacinto, buttandosi giù dalla macchina svelto come un
uccello.
Ed era stato lui, quasi
vinto dalle descrizioni del compagno, a proporre di visitare il poderetto.
Ed avevano visitato il poderetto,
lasciando giù il cavallo a strappare qualche fronda della siepe del muricciolo.
Efix fece osservare bene
al nuovo padroncino le arginature costruite da lui con metodi preistorici: e il
giovane guardava con meraviglia i massi accumulati dal piccolo uomo, e poi
guardava questi come per misurare meglio la grandiosità della costruzione.
"Tutto da solo? Che
forza! Dovevi esser forte, in gioventù!"
"Sì, ero forte! E il
sentiero, non l'ho fatto io?"Il sentiero serpeggiava su, rinforzato
anch'esso da muriccie, come da terrapieni eran sostenuti i ciglioni e i rialzi
del poderetto: un'opera paziente e solida che ricordava quella degli antichi
padri costruttori dei nuraghes.
E su, e su, ad ogni
scaglione si fermavano e si volgevano a contemplare l'opera del piccolo uomo, e
lo straniero aveva curiosità infantili che divertivano il servo.
"Il fiume si gonfia
d'inverno?"
"Cos'è questo?",
domandava tirando a sé qualche fronda di alberello.
Non conosceva né le piante
né le erbe; non sapeva che i fiumi straripano in primavera!
Ecco la striscia
coltivata a ceci, pallidi già entro le loro bucce puntute: ecco le siepi di
gravi pomidoro lungo il solco umido, ecco un campicello che sembra di
narcisi ed è di patate, ecco le cipolline tremule alla brezza come asfodeli,
ecco i cavoli solcati dai bruchi verdi luminosi. Nugoli di farfalle bianche e
giallognole volavano di qua e di là, posandosi, confondendosi coi fiori dei
piselli: le cavallette si staccavano e ricadevano come sbattute dal vento, le
api ronzavano lungo le muricce come dorate dal polline dei fiori su cui posavano.
Una fila di papaveri s'accendeva tra il verde monotono del campo di fave.
E un silenzio grave
odoroso scendeva con le ombre dei muricciuoli, e tutto era caldo e pieno
d'oblio in quell'angolo di mondo recinto dai fichi d'India come da una muraglia
vegetale, tanto che lo straniero, arrivato davanti alla capanna, si buttò,
steso sull'erba ed ebbe desiderio di non proseguire il viaggio.
Fra una canna e l'altra
sopra la collina le nuvole di maggio passavano bianche e tenere come veli di
donna; egli guardava il cielo d'un azzurro struggente e gli pareva d'esser
coricato su un bel letto dalle coltri di seta.
Vedeva Efix aprire la
capanna, volgersi richiamandolo con un gesto malizioso dell'indice, poi
ritornare con qualche cosa nascosta dietro la schiena e inginocchiarsi
ammiccando. Sognava?
S'alzò a sedere cingendosi
le ginocchia con le braccia e si fece un po' pregare prima di prendere la zucca
arabescata piena di vino giallo che il servo gli porgeva. Infine bevette: era
un vino dolce e profumato come l'ambra e a berlo così, dalla bocca stretta
della zucca, dava quasi un senso di voluttà.
Efix guardava,
inginocchiato come in adorazione: bevette anche lui e sentì voglia di piangere.
Le api si posarono sulla
zucca; Giacinto strappò di mezzo alle sue gambe sollevate uno stelo d'avena, e
guardando per terra domandò:
"Come vivono le mie
zie?".
Era giunto il momento
delle confidenze. Efix sporse la zucca di qui e di là, a destra e a sinistra.
"Guardi, vossignoria,
fin dove arriva l'occhio la valle era della sua famiglia.
Gente forte, era! Adesso
non resta che questo poderetto, ma è come il cuore che batte anche nel petto
dei vecchi. Si vive di questo,"
"Ma che testa, mio
nonno! È stato lui a rovinare la famiglia..."
"Se non era lui,
vossignoria non era nato!"
Giacinto sollevò rapido
gli occhi, riabbassandoli tosto.
Occhi pieni di disperazione.
"E perché
nascere?"
"Oh bella, perché Dio
vuole così!"
Giacinto non rispose:
guardava sempre per terra e le sue palpebre si
sbattevano quasi stesse
per piangere. Ma bevette di nuovo, docile, chiudendo gli occhi, mentre Efix si
lasciava sedere a gambe in croce e si prendeva un piede fra le mani.
"Non è contento
d'esser venuto, don Giacintì?"
"Non chiamarmi
così", disse allora il giovane. "Io non sono nobile, non sono nulla!
Dimmi tu, come te lo dico io. Se sono contento? No. Sono venuto qui perché non
sapevo dove andare... Là c'è tanta gente... Là bisogna esser cattivi per far
fortuna. Tu non puoi sapere! Ci son tanti ricchi... Ma c'è tanta gente..."
Agitava le dita della mano
tesa lontano, come per accennare al brulichio della folla, ed Efix guardava il
suo piede e mormorava con tenerezza e con pietà: "Anima mia bella!".
E avrebbe voluto curvarsi
sul desolato "ragazzo" e dirgli: sono qua io, non ti mancherà nulla!
- ma non seppe che offrirgli di nuovo la zucca come la madre offre il seno al
bambino che si lamenta.
"Lo sappiamo, sì, che
diavolo di mondo è quello! Ma qui è diverso: si può anche far fortuna. Le
racconterò come ha fatto il Milese... Un giorno arrive come un uccello che non
ha nido..."
Ma Giacinto ascoltava
desolato a testa bassa, torcendo un poco la bocca con disgusto, e d'improvviso
si buttò col gomito appoggiato sull'erba e il viso alla mano, masticando con
rabbia l'avena.
"Se sapessi, tu! Ma
che puoi sapere, tu? C'è a Roma un principe che possiede terre quanto tutta la
Sardegna, e un altro, uno che s'è fatto grande da sé, che quando succede
qualche disastro nazionale offre denari più del re."
"Anche in Sardegna c'è
un frate che ha trecento scudi di rendita al giorno",
disse Efix umiliato, ma
poi alzò la voce:
"Dico trecento scudi, intende, vossignoria?".
Vossignoria non parve
sorpreso. Ma dopo un momento domandò:
"Dov'è? Si può
conoscere?".
"Sta a Calangianus,
in Gallura."
"Troppo
lontano." E Giacinto, con gli occhi distratti, riprese a narrare
dellefavolose ricchezze dei Signori del Continente, dei loro vizi e delle loro dissipazioni.
"E son gente
contenta?", domandò Efix, quasi irritato.
"E noi siamo gente contenta?"
"Io sì, vossignoria!
Beva, beva e si faccia coraggio!"
Giacinto bevette ed Efix
scosse poi le ultime gocce sull'erba: le api vi si posarono e tutt'intorno fu
un ronzio di dolcezza.
Ma dopo l'arrivo al
Rimedio il ragazzo pareva contento.
Aveva abbracciato le zie e
le altre donne, aveva mangiato bene e ballato come un pastore alla festa.
Adesso dormiva e russava, ed Efix l'aveva veduto poco prima sul lettuccio lungo
il muro, con le palpebre chiuse così delicate, che pareva vi trasparisse
l'azzurro degli occhi, coi capelli rossicci sul bianco del guanciale e i pugni
chiusi come un bambino che sogna. Aveva dimenticato per terra il lume acceso.
Efix si curvo a spegnerlo pensando che i Pintor erano tutti così; incuranti
dell'economia e del pericolo!
Ebbene, forse meglio così
nella vita! Anche lui si volse supino e chiuse i pugni: attraverso i buchi del
tetto oscillavan le stelle e il loro tremolìo e l'incessante tremolìo dei
grilli parevano la stessa cosa.
Si sentiva l'odore degli
ontani e del puleggio; tutto era caduto in un silenzio tremulo come dentro
un'acqua corrente. Ed Efix ricordava le sere lontane, il ballo, i canti
notturni, donna Lia seduta sulla pietra all'angolo del cortile, piegata su se
stessa come una giovine prigioniera che rode i lacci e piano piano si prepara
alla fuga.
