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Di vesti avvelenate e velli d'oro ...

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DI VESTI AVVELENATE E VELLI D'ORO:
la tragica attualità di Medea e degli Argonauti

Questa non è una storia da raccontare in riva al mare, tra falò di lucciole e lievi accordi di chitarra. Non è nemmeno una fola adatta a un nugolo di ragazzini seduti fra i salici sotto la luna, che tentano di spaventarsi snocciolando tenebrosi aneddoti e macabre leggende, nel fresco delle nottate estive. La si deve, invece, sussurrare con delicatezza e circospezione, tramandandola da una generazione all'altra, affinché sentimenti fragili e disillusione, avviluppati in una crisalide di oscura magia, non vengano, nuovamente, frantumati.
Questa volta ci rannicchieremo su un molo desolato, osservando lo scheletro mesto di una nave incrostata di ere, fra le cui travi sventolano, meste, una veste sdrucita e una pelliccia d'oro. E ascolteremo, cercando di non giudicare, la storia di un'ingenua principessa orientale. Illusa... e poi degradatasi a mostro per amore (...o, forse, per “onore”?).
Immaginate, ora, d'indossare le impalpabili vesti di quella principessa orientale, e di correre leggiadramente fra arcaici loggiati; la luna vi osserva danzare, mentre ripassate le ultime formule suggeritevi da vecchi maghi. La principessa non è che una bambina; eppure, quando incrocia lo sguardo di un eroico visitatore, non può che sentire, al pari di Nausicaa alla vista del naufrago Odisseo, un fremito inatteso. Medea (questo il nome della giovane) trascorrerà notti intere a rivolgere la mente all'ospite occidentale, rigirandosi insonne al ritmo cadenzato, sempre più frenetico, di un atroce dilemma: aiutarlo o meno a impadronirsi del vello d'oro?
Urge, a questo punto, un piccolo balzo all'indietro: il nuovo arrivato, Giasone, non è che l'erede al trono di Iolco, spodestato, così come Amleto, da un orribile zio, Pelia. Quest'ultimo, dopo aver fatto prigioniero il padre di Giasone, il legittimo sovrano Esione, ha convocato l'impavido nipote, proponendogli furbescamente un accordo: la liberazione di suo padre in cambio del vello dorato in possesso di Eeta, re della Colchide e padre di Medea. Pur conscio dei travagli in agguato, Giasone ha accolto l'offerta (presentatagli dallo zio nella speranza che lui morisse durante il viaggio): al timone della mitica nave Argo, affiancato da cinquanta eroi, i cosiddetti Argonauti, è salpato alla ricerca della pelliccia dell'ariete alato Crisomallo, in grado di curare ogni ferita, celato da Eeta in una densa foresta e custodito da un drago.
Giasone e Medea
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Chirone nelle vesti di maestro
Giasone, impavido e affascinante, è stato allievo, al pari di Achille, del centauro Chirone: unisce, dunque, alla forza e alla determinazione che gli hanno consentito di sconfiggere giganti a sei braccia e di gareggiare in resistenza con Eracle e i Dioscuri, un'invidiabile abilità retorica. Nulla da stupirsi, dunque, se l'inesperta e sognatrice Medea ora si rigira, combattuta, fra le lenzuola, domandandosi se rimanere fedele alla sua famiglia o cedere alle lusinghe dell'eroe ... Anche perché c'è di mezzo lo zampino di Eros, il quale le ha infuso nell'animo un sentimento improvviso.
E la docile Medea, supportata dalla sorella Calciope, finisce per rimestare, provetta maga, intingoli ed erbe; grazie ai suoi filtri, Giasone è in grado di superare le prove propostegli, sardonicamente, da Eeta in cambio del vello: aggiogare a un aratro i due tori di Efesto, dagli zoccoli di bronzo e dal respiro infuocato, scavare quattro solchi nel terreno e seminarvi denti di drago. Protetto dal sangue di Prometeo (titano donatore del fuoco agli esseri umani) fattogli ingerire da Medea, Giasone riesce a sgominare i giganti nati dalle sementi mostruose. In seguito, quando Eeta rifiuta, nonostante il superamento della prova, di concedergli il vello, se ne impadronisce furtivamente, di notte, assassinando il drago ammaliato dalle magie di Medea.
Giasone alla conquista del vello d'oro
Giasone, già esperto nelle arti della seduzione (ha infatti accettato di giacere con Ipsipile, donna guerriera di Lemno, al fine di generare una stirpe di eroi, per poi rifiutare di regnare al suo fianco) conduce con sé l'ingenua principessa; non è l'amore a spingerlo a farlo, né la riconoscenza. Si tratta, semplicemente, di utilità. Se, infatti, Teseo abbandonò Arianna sull'isola di Nasso dal momento che, dopo l'uccisione del Minotauro, non avrebbe più potuto ottener vantaggi dalla sua presenza, Giasone si sarebbe potuto giovare ancora delle arti magiche e dell'astuzia di Medea.
In effetti il principe, durante il viaggio di ritorno, si accorge di essere inseguito dal figlio di Eeta, Apsirto: Medea, utilizzando il potere della parola (quell'abilità retorica che, secondo Gorgia, avrebbe potuto gettare Elena di Sparta fra le braccia di Paride), lo convince di essere stata rapita e gli rivolge una preghiera d'aiuto, attirandolo su un'isola sperduta ove Giasone lo può assassinare. Secondo una versione più truculenta del mito, ancor più adatta a evidenziare quanto la giovane sia ormai discesa in un baratro interiore, è Medea stessa a dilaniare a morte il fratellastro, qui presentato come un infante, disperdendone i brandelli in mare.
A differenza di altre fanciulle, sedotte da eroi e circuite sino al punto da tradire la propria famiglia, Medea finisce per sposare realmente l'oggetto della sua ossessione. Divenuta regina di Iolco, da Giasone genera anche due figli. Ma le arcaiche tragedie non possono che divenire ancora più oscure, e nuovo sangue viene richiamato dal sangue. Giasone, divenuto un tronfio e borioso sovrano, dimentico del sempiterno supporto della sua sposa, sceglie di liberarsene per congiungersi a una nuova principessa. “Un fanciulla splendidamente educata e occidentale”, sussurra, sprezzante, a Medea, “Non certo una barbara, sgraziata e selvaggia, come te”.
E Medea, che oltre all'orgoglio e alla corona, dovrebbe rinunciare anche ai suoi stessi figli, finge di chinare il capo. Finge soltanto, sì. Perché lei è diversa dalla Griselda delineata da Boccaccio nel suo Decameron: una giovane così pacata e remissiva da accettare di vedersi portare via i figli e di allestire le nuove nozze di suo marito con una donna più giovane e benestante di lei. Medea è, invece, una principessa, è una maga, ed è una discendente di Circe e del Sole: l'onta che minaccia di macchiarla dev'essere istantaneamente cancellata.
Fa quindi pervenire a Glauce, la novella sposa, una magnifica veste in dono; ma la stoffa è intrisa di veleno, e la giovane, al pari di suo padre, Creonte, accorso in suo aiuto, spira fra atroci dolori. Non paga, Medea, dopo orribili travagli interiori, si risolve a impiccare i suoi stessi figli, per privare Giasone della sua discendenza. Il sovrano, crollato in ginocchio, non può che osservare la sua terrificante consorte spiccare il volo sul carro del Sole, trainato da draghi alati, trionfante pur nella sua stessa, lancinante, sofferenza.
Medea s'accinge ad assassinare i figli
Sbarco degli Argonauti
Ora: Medea è un'affascinante figura tragica, archetipica. Ed è, innegabilmente, un'angosciante e gelida assassina. Ma è stata anche una fanciulla ingenua, preda delle lusinghe del primo amore e costretta a una scelta atroce; ferita nel profondo, offesa nella sua identità, privata di quanto le fosse maggiormente caro, ha scelto, infine, di pugnalare, per interposta (innocente) persona, chi l'aveva degradata.
Di uomini (e donne) egoisti e oscenamente tronfi, abituati a circuire e sfruttare sino all'osso personalità più fragili, per poi scrollarsele di torno quando non ne hanno più bisogno, ce ne sono, anche oggi, a bizzeffe. E per ogni Giasone della situazione non possono mancare più donne (e uomini) ingenue, fragili, o semplicemente sognatrici, la cui dignità, quando viene troppe volte calpestata, finisce tragicamente per annullarsi. Salvo poi, talvolta, riemergere dalle sue stesse ceneri, densa di consapevolezza e ostile a nuove umiliazioni.
La risalita, per alcuni di coloro che si vedono utilizzati e calpestati, può essere lunga, dissestata, ma altrettanto risplendente. Per altri, invece, può sfociare in depressione, perdita di autostima e di fiducia nell'Altro, astio ribollente. O talora, Zeus non voglia(!), raptus incontrollati.
Re Pelia e Giasone con in Vello d'Oro
Ovviamente, Medea non è giustificabile: il suo aberrante gesto finale, al pari dell'assassinio del suo stesso fratello, non suscita nemmeno un stilla di comprensione. Non è Edipo, costretto a ripetuti incesti in quanto preda di un destino vergato da qualcuno più in alto di lui. Non è nemmeno il Minotauro, nato per infondere sofferenza e trovare la morte a causa delle colpe del patrigno.
Medea è consapevole delle sue azioni. Riflette, soppesa varie ipotesi, e, infine, effettua la sua scelta. Eppure, non possiamo fare a meno di chiederci: se sua sorella, Calciope, le fosse rimasta accanto? Se Helios, suo avo, fosse sceso a lavare le sue offese? Se un qualunque individuo avesse preso le sue parti, e lei non avesse finito per sentirsi una barbara, rinnegante la sua famiglia e la sua cultura in cambio di disprezzo e umiliazione? Ecco, in tal caso... chissà se avrebbe potuto propendere per una risoluzione differente.
L'Astrolabio di Swanbook
Redazione: Desenzano del Garda
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