Intervista a Stefano Sciacca
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Francesca Ghezzani incontra e intervista Stefano Sciacca, autore del romanzo hard-boiled "L’ombra del passato", si è dedicato negli ultimi anni allo studio della
modernità.
Questo tema è al centro anche della sua ultima pubblicazione.
In
che prospettiva "L’ombra del passato" affronta il tema della modernità?
Naturalmente nella mia. Una prospettiva molto personale e,
in quanto tale, non necessariamente condivisibile o condivisa. Direi, anzi, una
prospettiva opposta rispetto a quella comune.
Comunemente, infatti, l’aggettivo «moderno», almeno in un contesto
colloquiale, vale a evidenziare un aspetto positivo, un pregio del soggetto o
dell’oggetto al quale si riferisce. Essere moderni, nell’opinione comune,
significa essere attuali, essere alla moda, significa non avere nulla addosso
di antico, di vecchio, di obsoleto. Significa, insomma, essersi affrancati dal
passato e appartenere pienamente, completamente, incondizionatamente al
presente. Ed è altresì diffusa la convinzione che il presente, il nostro
presente, sia il risultato di un’evoluzione e di un progresso che hanno
introdotto cambiamenti sociali, culturali, tecnologici e antropologici dei
quali, nel complesso, non si può fare a meno che rallegrarsi.
E tu non sei d’accordo?
La modernità – si suole dire – ha definitivamente trionfato
con la demolizione del sistema di privilegi dell’antico regime. È coincisa con
l’affermazione dei principi di Libertà, Uguaglianza e Fraternità. Come si
potrebbe non apprezzare una simile trasformazione?
In verità, però, privilegi e privilegiati esistono ancora. Eccome!
Soltanto sono cambiati, perché cambiati sono i criteri e le
regole sui quali si reggono. Non più il sangue e la terra, ma il denaro.
La promessa della mobilità sociale fondata sull’incremento
di ricchezza ha scardinato il principio dell’immutabilità di una struttura
rigida e il limite è stato abbattuto dalla possibilità. Una possibilità
illimitata, appunto, in quanto il denaro, a differenza dei vecchi strumenti di
potere (oro, schiavi e terra), è potenzialmente illimitato. Oggi è persino
immateriale, virtuale.
Così la promessa, che rende tollerabile la promiscuità tra
poveri e ricchi, illudendo gli ultimi che un giorno potrebbero essere i primi, anche
senza dover necessariamente aspettare il regno dei cieli, si è tramutata in condanna
per la maggior parte degli esseri umani. La condanna a non accontentarsi mai, a
cercare di possedere sempre di più, a finire per essere perennemente
insoddisfatti. La modernità è l’epoca dell’insoddisfazione cronica. Perché ha
sostituito l’accettazione del limite con il capriccio e l’ambizione sfrenati, il
dovere con la pretesa, la solidarietà con la concorrenza.
La modernità è mobile anziché statica e il suo
caratteristico movimento, frenetico e ininterrotto, si riduce a una corsa di
tutti contro tutti: la corsa alla conquista della posizione migliore, del piolo
più alto della scala sociale, da fare proprio e proprio soltanto, escludendo o
eliminando chiunque possa risultare un ostacolo o una minaccia, rinnegando
persino le proprie origini, passando cioè, come si suol dire, sul cadavere
della madre (e del padre). E finendo, così, per rinnegare addirittura se
stessi. Perché, per riuscire in questa corsa, occorre alleggerirsi degli
scrupoli, dei dubbi, del senso di colpa. La coscienza diventa un compagno
d’avventura superfluo, scomodo, sacrificabile.
Di questo,
in fondo, tratta L’ombra del passato. Questo è appunto ciò che scopre il suo
protagonista, questo ciò che lo salva prima che sia troppo tardi.
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La sua scoperta è stata anche la tua?
Sì, ma compierla non è stato facile e tantomeno indolore. Eppure
l’attività letteraria, lo studio e la ricerca sono stati determinanti e
salvifici, in quanto mi hanno offerto l’opportunità di confrontare le mie
esperienze di vita, specie le più traumatiche, con una realtà alternativa a
quella contemporanea, la realtà di tutti i giorni. Leggere, riflettere,
formarsi un’idea propria, solo così si può disobbedire in maniera costruttiva,
in maniera consapevole. Disobbedire anche alle regole del mercato editoriale,
per quanto ciò comporti un prezzo assai caro da pagare. Eppure, riprendendo in
mano le mie pubblicazioni, se per un verso noto un’infinità di cose che
andrebbero eliminate, corrette o aggiunte, dall’altro mi riconosco pienamente
nell’intenzione che ho perseguito attraverso essi.
Prima e dopo il noir non è solo un libro di critica cinematografica.
Sir William Shakespeare, buffone e profeta non è incentrato esclusivamente
su Shakespeare. L’ombra del passato è più di una mera trama
investigativa.
Lavorando su questi tre testi, in continuità tra loro, ho finito
inevitabilmente per lavorare su me stesso. Il dialogo con autori, artisti e
intellettuali del passato, incontrati lungo il percorso, mi ha permesso di
riflettere con maggiore distacco sul presente e ravvisare alcune costanti della
modernità – intesa come l’atteggiamento autoreferenziale ripetutamente assunto,
nel corso della storia della civiltà occidentale, dal potere e dai suoi
servitori.
Ne ho tratto altresì la conclusione che l’essere umano
meriti di essere preservato nella sua spontaneità, nella sua autenticità, nella
sua fallibilità. Insomma, nella sua individualità. Egli deve conservarsi unico
e rivendicare sé per sé stesso. Deve sottrarsi alla coscienza del gregge, benché
possa essere molto rischioso, e mantenere fede alla propria, di coscienza.
Eccoci di nuovo ai temi de L’ombra del passato, alla
poetica del dissenso tipica del cinema noir (e del realismo ottocentesco), alla
filosofia del buffone di Sir William Shakespeare.
Mi sembra che ne “L’ombra del
passato”, per quanto breve sia il racconto, il protagonista viva un’evoluzione
che lo porta a prendere le distanze dal resto del mondo, nel quale in
precedenza, sia pure a suo modo, era invischiato, per riconciliarsi finalmente con
sé stesso. Sei d’accordo?
Sì, Artusio arriva nell’arco di poche notti a comprendere
ciò che io ho impiegato anni a metabolizzare: avidità, vanità, egoismo sono le peggiori
piaghe della nostra società, dalle quali ogni individuo rischia di essere
infettato e travolto. La sola via di fuga, il solo riparo è la propria
interiorità. Ma la compagnia di sé stessi, il silenzio e la solitudine talvolta
sono più insopportabili della calca e del caos. Talvolta qualcosa dentro grida
in maniera più violenta di quanto non faccia la strada.
Eppure non esiste altro riparo al gran contagio del
presente, alla smania irrefrenabile di alzare la voce e di sovrastare quelle
altrui solo per farsi sentire da tutti gli altri e, soprattutto, da se stessi.
Artusio, alla fine del racconto, si gode invece un momento
di silenzio assoluto. Si gode, in totale solitudine, la compagnia di sé stesso.
Si riappropria della sua individualità.
In questo momento sono impegnato in uno studio sulla Prima
Guerra Mondiale, la prima guerra moderna, il cui principale effetto fu di
determinare il definitivo trionfo delle masse e delle macchine e,
conseguentemente, di annichilire l’individuo e stravolgere la natura.
L’essere umano, invece, ha bisogno di riscoprire sé stesso
e la natura. E occorre che provveda alla svelta, fintanto cioè che ancora resta
un angolo di verde nel quale poter tornare nudi, poter svestire la maschera che
la società moderna impone a ciascuno di indossare e sottrarsi così alla grande
mascherata di una vita orientate da quanto c’è di più artificiale: la
moda.