Il noir "Bruciati vivi" di Daniela Stallo
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Articolo di Francesca Ghezzani
Un paio di omicidi, una
somma di denaro inaspettata, il mondo della scuola e la Sindrome del burnout: vi
presento il noir BRUCIATI VIVI della
scrittrice Daniela Stallo
Daniela Stallo è tornata in libreria con BRUCIATI VIVI (ARKADIA, Collana
Eclypse), un noir dove fatti di sangue e indagini si intrecciano a un racconto
di scuola, di donne, di desideri e ricerca della felicità. Tanti i
riconoscimenti ottenuti, tra cui la Menzione romanzi editi al Festival Giallo
Garda.
Daniela, hai scritto un noir e un libro
sulla scuola allo stesso tempo. Come è arrivata l’idea?
Da una parte volevo scrivere una storia di
scuola, dall’altra il genere noir mi appassiona, mi coinvolge, amo i suoi maestri,
mi piace quello che consente di fare, raccontare una storia dietro un caso,
parlare di una città, un contesto, un tema sociale dietro un delitto.
E poi il noir è crudo, disilluso, appunto
nero. Quindi potrei dire di aver unito due passioni, scuola e noir.
La verità è invece che l’idea me l’ha data
una collaboratrice scolastica di una scuola di qualche anno fa, una di quelle
dove ho lasciato un pezzo di cuore. Grande lavoratrice, instancabile,
accoglieva ogni richiesta, un’amica, un sostegno. Poi un giorno di particolare
lavoro, uno di quei giorni febbrili, non ricordo se ci fossero scrutini, o
consigli di classe, il centralino squillava in continuazione, gente che andava
e veniva, Carmela, esasperata, mi disse: “Perché non scrivi un libro in cui
muore qualcuno in una scuola?”.
E, così, ho rubato: lo scrittore è un
ladro di idee, di storie, di emozioni. Quando non ne ha di sue, saccheggia
altrove.
Ci presenti Luisa e la
sua storia, con un accenno alla trama di BRUCIATI
VIVI?
Luisa
Marinai è un’insegnante pendolare da trent’anni e racconta, in una
cronaca-diario, un anno scolastico. Vive in città, in un appartamento in zona
167 e viaggia ogni giorno su una strada tra nebbia e acqua, ondate d’acqua.
Sente un suono nell’orecchio, un “vuuuuuuuuuuuuuuuuuuuu” che la angoscia dentro
il cuscino, crede che provenga dai cantieri navali, ma non ci sono cantieri
navali, nelle vicinanze. Stanca, demotivata, disillusa, si sente non
gratificata e malpagata, l’emicrania la trafigge come una spina di rosa
conficcata in un punto variabile della testa.
Il
marito, che gestisce un negozio di ferramenta, è ossessionato da una partita di
trapani difettosi, non vede altro. Luisa non ama più gli alunni, l’amica, i
genitori. Si nutre di pastina al burro e buste di funghi surgelati. Lo
svilimento della sua vita sta anche nel suo frigorifero.
È
inseguita da una Golf che la perseguita sulla superstrada, un tizio con gli
occhi blu la spaventa, la tallona, la sorpassa, e lei vorrebbe, con un
punteruolo, bucare quegli occhi di ghiaccio.
Luisa
vorrebbe uno stipendio diverso, un uomo dirigente diverso. Vorrebbe un altro
lavoro, ma le basterebbe un trasferimento, una sede più vicina, senza la strada
e la pioggia, perché spera ancora che ci sia una scuola che possa renderla
felice.
Crede,
in fondo, che in un lavoro migliore stia la felicità e chiede ai suoi colleghi
di esprimere i propri desideri, che cosa
vorresti ci fosse nella scuola per essere felice? Li trascrive in liste
ossessive, ha in animo di mandarle al ministro.
Viaggia
con un bloccasterzo, le serviva, un tempo, come antifurto dell’auto, ora lo
tiene nella bauliera, la fa sentire al sicuro.
Poi
un giorno, a novembre, in maniera non del tutto lecita, Luisa viene in possesso
di una somma di denaro, letteralmente e materialmente caduta dal cielo. Pensa
che la sua vita finalmente potrà cambiare. E invece un paio di omicidi si
mettono sul suo percorso: qualcuno muore, in questo viaggio di follia tra
strada, camion, pioggia e persone invisibili.
Dietro alla storia di
Luisa si cela la Sindrome del burnout… spiegaci meglio.
Forse
prima si chiamava esaurimento nervoso lo stress psicofisico del lavoratore, non
solo dell’insegnante. È una patologia, con le sue fasi, il suo processo, i
sintomi. Ne parlo non certo da tecnico, non da esperto, da medico, è solo una narrazione,
una storia.
Prima
di scrivere, e durante la formazione del libro, perché niente fosse
improvvisato, ho consultato gli studi del dott. Lodolo D’Oria, che da anni si
dedica al problema, e altro materiale.
I
bruciati vivi sono i lavoratori, il tema è lo stress psicofisico del docente,
in una scuola differente da quella a cui siamo abituati a pensare, grigia, non rassicurante,
frustrante, dove colleghi e studenti non sempre si amano e non sempre sono
amati. Il tempo e la disillusione incidono fortemente sulla condizione del
lavoratore.
La
routine, la demotivazione, la percezione dell’inutilità, lo scollamento,
l’alienazione sono sintomi della patologia, a volte il lavoratore, ormai
fragile, sperimenta insieme situazioni di mobbing.
Di
certo la vita privata, la famiglia, le relazioni più o meno forti, sono
determinanti per diventare un soggetto in burnout.
E in
questo libro, in particolare la situazione è aggravata dal pendolarismo. Il
pendolarismo è faticoso, faticosa la strada, che divide posti e persone, la
pioggia, lo straniamento di un luogo che non riesce ad appartenerti e dove vivi
solo per un periodo del giorno. Ancora di più per una donna che, tutt’oggi
culturalmente, si accolla la gran parte delle incombenze domestiche, un altro
lavoro dopo il viaggio di rientro.
Luisa,
prima di tornare a casa, resta qualche minuto in auto, ascolta il silenzio,
guarda l’appartamento dal cortile, aspetta, si ferma dentro il sedile, prima di
avviarsi.
Se parlassimo di scelte e
pentimento, cosa ci diresti?
Le
scelte di Luisa, benché a volte non sembrino ponderate, addirittura
irragionevoli, contro il suo interesse, sono volute. Luisa scrive, anche
materialmente, le opzioni, elenca i pro e i contro, poi decide. Le scelte sono
piccole, quasi insignificanti (che cosa mangiare a cena, interrompere le
tradizioni dei regali a Natale) o molto più importanti (la scelta del lavoro,
che cosa fare della somma di denaro che si trova, inaspettatamente, nelle
mani). In ogni caso, una volta scelto, Luisa non si pente, anche quando prende
coscienza delle conseguenze. Vive una ineluttabilità delle cose, una
predestinazione nella sua vita. Le cose non potevano andare che in quella
maniera, dunque nessun pentimento, direi più una rassegnazione.
Ci dai un’immagine della
scuola non convenzionale?
Luisa
pensa che sia un organismo autorigenerante, che vive di vita propria, potrebbe
autogovernarsi. La lasci a luglio e lei aspetta, uguale che si torni. Mi piace
questa idea di Luisa, la condivido, anche io la guardo, a ogni rientro, con
stupore e meraviglia, eterna.
Infine,
una provocazione: spesso il docente sembra aver perso autorità e autorevolezza
agli occhi di allievi e famiglie tanto che il concetto di “salire in cattedra”
risulta ribaltato, inoltre nell’immaginario di molti l’insegnante è colui che
trascorre tutta l’estate a casa e lavora per un monte ore settimanale inferiore
ad altre professioni. Scrivere un libro del genere può essere utile per far
immergere il lettore nella cronaca di una vita lavorativa segnata dai sintomi e
dalle manifestazioni tipici del burnout, magari, fargli cambiare idea?
Nella narrazione viene fuori anche questo
aspetto, la cattiva percezione che ha del docente l’opinione pubblica. Il
lavoro dell’insegnante viene descritto con le gratificazioni, gli inevitabili
momenti di sconforto, la stanchezza, a cui pochi credono, le motivazioni che a
un tratto mancano. Certo che si fa riferimento ai famosi tre mesi di vacanza,
reali solo nell’immaginario collettivo, e al lavoro che si dice circoscritto,
certo che emerge il lavoro sommerso, quello che non si vede, ma si onora con
orgoglio e puntualità. Il rapporto umano continuativo, per il quale insieme
bisogna gestire il gruppo e le singole individualità, la classe e i bisogni, e
i sogni, di ciascuno. Ma per nulla era questo l’obiettivo del libro, sono
risvolti che vengono fuori dalla narrazione.
In ogni caso non esistono giustificazioni,
nulla è detto con livore, come scrivo nella nota: questo libro e la sua storia
sono atti d’amore, per gli alunni, per il servizio nei confronti dello Stato, e
per il lavoro stesso. Che poi, come diceva mio nonno, sono la stessa cosa: il
lavoro è servizio all’altro.