Date da ricordare: 9 ottobre 1963, la tragedia del Vajont
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ottobre 2023
9 ottobre 1963: il disastro del Vajont, una tragedia annunciata
di Pasquino del Garda
Vajont è un nome che nei ragazzini della mia età che nel 1963 frequentavano la terza elementare è sicuramente rimasto nella memoria. Ricordo ancora che le maestre invitarono tutti noi alunni a portare un piccolo contributo in danaro (e accidenti, a quei tempi i contributi potevano essere solo molto piccoli) da destinare ai sopravvissuti e alle famiglie delle vittime.
Ai tempi il televisore non era ancora diffuso in tutte le case e internet con tutto il rumoreggiare dei social network non esisteva, anzi nemmeno nei film di fantascienza dell’epoca si poteva immaginare ciò che sarebbe successo più o meno mezzo secolo dopo.
Quello che però è sicuro è che quello che accadde il 9 ottobre 1963 ha scosso terribilmente l’intero paese. Oddio quando parlo di paese, intendo la popolazione e i cittadini, che poi sono quelli pagano le conseguenze di ogni cosa (disastri e guerre principalmente… ma non solo) e sono sempre i cittadini che di fronte alle catastrofi (annunciate a volte!?!?!?!) si scuotono e reagiscono sempre… mentre quella porzioncina di paese costituito da chi dovrebbe darsi una mossa, intervenire ed agire si scuote in po' meno… molto meno faticosa soprassedere, insabbiare o giustificare: una prassi secolare che immancabilmente viene seguita da chi governa e amministra… Già perché tra catastrofi naturali, alcune annunciate (come dicevo poco sopra) e in parte evitabili (il Vajont ne è esempio ancora oggi), e una miriade di altri episodi (chiamiamoli pure così) di stragi, stragine, straggette, omicidi sospetti o mascherati con falsi moventi, truffe, truffine e truffette di vario genere, ormai i… magazzini della memoria (stavo per scrivere i coglioni, ma mi sembrava un tantino scurrile) sono ormai strapieni.
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Comunque torniamo al nostro 9 ottobre
1963 (di molte altre date e episodi particolari avremo modo di parlarne di
frequente in futuro) e magari facciamo qualche piccolo passo indietro di qualche
anno nel tempo, quando appunto venne progettata e costruita la diga.
Siamo nella provincia di Belluno. Il
Vajont è un affluente del Piave che scorre nella valle di Erto e Casso (PN). Il
torrente si getta nel Piave nei pressi di Longarone, dopo avere scavato una
profonda gola che prende il nome dall’omonimo torrente che, con il suo tortuoso
e impetuoso percorso, ha scavato una delle più belle gole di tutto l’arco
alpino, tra il monte Toc e il monte Salta.
Siamo nell’Italia del boom economico,
alla fine degli anni Cinquanta, con il paese ancora in piena ricostruzione dopo
lo sfacelo della Seconda Guerra Mondiale quando venne realizzata un’opera
ingegneristica di mirabolante portata: una diga, celebrata ai tempi come la più
grande d’Europa.
Il cantiere viene aperto nel gennaio
del 1957 e l’inaugurazione dell’opera avviene nel 1959. I lavori di costruzione
sono affidati ad un’azienda privata, la Sade (Società Adriatica di Elettricità),
che in fase di realizzazione, non tiene conto degli elevati rischi di franosità
e di possibili eventi sismici della zona e ignora le ipotesi di pericolo
paventate da chi conosce bene l’area (chissà forse erano convinti che stavano
costruendo un giocattolo con i mattoncini del Lego). Resta il fatto che
numerose richieste di intervento e di denuncia sui rischi a cui si andava
incontro (molte furono sollevate ben prima di iniziare i lavori) continueranno
ad essere ignorate per anni. I costruttori ritengono di avere la situazione
sotto controllo e che “eventuali problematiche” non saranno di estrema
rilevanza.
I lavori, quindi, hanno inizio. Di
conseguenza la morfologia della valle del torrente Vajont venne profondamente
modificata dalla costruzione di una imponente diga a doppio arco dell’altezza
di 261,60 m e della lunghezza di 190 m alla sommità. Lo sbarramento del
torrente andrà a creare un lago della capacità complessiva di circa 170 milioni
di mc. che, secondo i progettisti, raccoglierà non solo l’acqua del torrente
Vajont ma anche quella proveniente da tutti i bacini artificiali del Cadore,
per poi convogliarla alla centrale elettrica di Soverzene.
A quei tempi, le normative non
prevedevano l’obbligo di valutare la stabilità dei versanti montani che
avrebbero dovuto accogliere gli invasi e quindi le perizie risultarono sotto
questo profilo incomplete (Negligenza? Osservanza delle “non normative”?
Interessi economici? Boh…).
Questo non vuol dire che, se ai tempi
le normative fossero esistite, chi di dovere le avrebbe rispettate, basti
pensare a quello che accade ai giorni nostri, dove (ovviamente per sentito
dire…) delle leggi e normative ci sono, ma continuiamo a contare morti e danni
a causa di disastri idrogeologici e di altro genere (pare che l’unica legge che
venga rispettata sia quella del tornaconto economico e l’unico dio in cui si
crede ciecamente sia il “dio danaro”).
Sta di fatto che (che sia solo
casualità o qualcos’altro causato dagli invasivi lavori sul territorio
circostante non è dato saperlo… o forse sì!) il 22 marzo del 1959 a seguito di
una frana avvenuta nel vicino bacino idroelettrico di Pontesei (Forno di Zoldo,
BL), si decise di approfondire le indagini geologiche.
L’incarico fu affidato, tra gli altri,
al geologo austriaco Leopold Müller che si avvalse della collaborazione di due
geologi italiani, Edoardo Semenza, figlio del progettista della diga, e Franco
Giudici. Nella loro relazione definitiva, consegnata nel giugno 1960, essi
affermarono che sul versante settentrionale del monte Toc prospicente l’invaso
era presente una frana antica, già scivolata in epoca preistorica a sbarrare la
valle, che a seguito della creazione del lago avrebbe potuto muoversi
nuovamente.
Questa relazione tecnica dai contenuti
piuttosto preoccupanti è stata redatta quando la costruzione della diga era già
ultimata; infatti, nel settembre del 1959 iniziarono le prove di invaso. Nel
marzo 1960 sul versante della montagna si manifestò una grande fessura a forma
di “M” lunga oltre 2 km e larga circa un metro. Quella “M” nella montagna era
semplicemente un’avvisaglia di ciò che sarebbe successo nel novembre dello
stesso anno, quando dalla montagna si staccò una frana di circa 700 mila metri
cubi di terra e roccia che, precipitando all’interno dell’invaso, generò
un’onda anomala di 10 metri di altezza. Subito dopo questo evento venne
disposto lo svaso controllato del bacino ed i movimenti rallentarono subito fin
quasi a fermarsi. Negli anni successivi vennero effettuate altre prove di
invaso a seguito delle quali i movimenti della frana si riattivarono.
Il 26 settembre 1963 si decise di
procedere nuovamente con lo svaso della diga, ma il provvedimento non ebbe
l’effetto sperato ed il movimento della massa continuò ad aumentare, fino a
raggiungere la mattina del 9 ottobre i 30 cm al giorno.
Lo stesso giorno alle 22.39, la frana
si staccò dal monte.
Un volume di roccia di circa 270
milioni di metri cubi scivolò ad una velocità di circa 70-90 km/h verso il
bacino della diga: in una ventina di secondi l’intera massa raggiunse il lago.
L’impatto con l’acqua generò un’onda
di circa 50 milioni di metri cubi che si divise in più direzioni: una parte
risalì il versante del monte radendo praticamente a suolo le abitazioni di Erto
e Casso, un’altra scavalcò la diga, precipitando nella stretta valle
sottostante.
In pochi minuti circa 25 milioni di
metri cubi di acqua e detriti raggiunsero Longarone e la spazzarono via con la
quasi totalità dei suoi abitanti. Insieme con Longarone vennero distrutti gli
abitati di Pirago, Maè, Villanova e Rivalta (in provincia di Belluno), Frasèin,
Col delle Spesse, Il Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana, San Martino, Faè e
la parte bassa di Erto (in provincia di Pordenone). Vennero distrutte 895
abitazioni, e 205 unità produttive a Longarone, la ferrovia Belluno-Calalzo
venne divelta per 2 km e la SS51 distrutta per 4 km. L’evento dimezzò la
superficie a seminativo, e andò perduto il 30% del bestiame. I morti furono
1917, 400 dei quali mai più ritrovati.
Cosa ci rimane di quella tragedia?
Dolore e rabbia di sicuro perché i
presupposti per una tragedia c’erano tutti e forse, anche a quei tempi e con le
conoscenze tecniche e scientifiche dell’epoca, forse il disastro e soprattutto
tante vittime potevamo risparmiarcele.
Oggi la diga del Vajont è ancora lì,
come un cuneo scagliato dagli dei, ad insinuarsi in quella stretta strozzatura
della valle. La costruzione è praticamente integra, ma anziché una diga ora è
un muro di sostegno e al suo interno non c’è quell’acqua che doveva contenere,
ma tutta la terra e la roccia scivolata nel bacino il 9 ottobre 1963: 60 anni
fa.
La diga del Vajont e i luoghi
circostanti coinvolti nel disastro idrogeologico vengono visitati da molte
persone. Io ho avuto la possibilità di farlo nel 1975 grazie ad una gita di
classe: ricordo che era il mese di aprile e che pioveva tantissimo, acqua e
nevischio, c’era vento gelido che arrivava dalla valle; il cielo che più
plumbeo di com’era non poteva essere.
Il ricordo di ciò che era accaduto,
era ancora abbastanza fresco nella memoria mia e dei miei compagni di classe della
“quinta geometra” (erano 12 anni dalla tragedia), ma quello che ricordo bene è
quel gelo che ci avvolti nel guardare dall’alto l’invaso della diga, e vi posso
garantire che non era il gelo del vento freddo e del maltempo che imperversava,
bensì il pensiero di quello che era successo in meno di un minuto la notte del
9 ottobre 1963.