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Mitologia Dantesca: quando il sommo poeta...

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Riprendiamo il nostro itinerario.
 
Sarà una tappa sui generis, questa. Un tratto di viaggio in cui, anziché accompagnare direttamente dei personaggi classici nelle loro peregrinazioni, ci affiancheremo a un poeta ben più recente, eppure, al pari nostro, catturato dall'incommensurabile ricchezza dei miti antichi. Quel poeta è Dante, e la strada che ci aspetta è contorta, bruciante e gelida, e in discesa. So che ormai siete temprati, e il dolore di affascinanti esseri perduti non vi spaventa: accingiamoci, dunque, a scivolare in una brillante attualizzazione medievale dell'Ade.
Nota a tutti è la struttura dell'Inferno, descritta al suo discepolo da Virgilio nell'XI canto della Commedia. Quel che talora, invece, sfugge, a fronte dell'immensità dello stile dantesco, dei geniali contrappassi e del messaggio complessivo, è l'infinita ragnatela di riferimenti ai miti greci e latini che s'interseca costantemente alla vicenda principale: racconti tesi a spiegare o a esemplificare, atti a impreziosire la narrazione tramite parallelismi, a rileggere un passato, altrimenti censurato, in ottica cristiana.
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Dante è figlio del suo tempo, e utilizza termini come peccato laddove gli ellenici avrebbero pronunciato le parole aidos (vergogna), hybris (tracotanza) o semplicemente tyche (sorte ... che, come ben abbiamo appreso dai nostri viaggi precedenti, può risultare infausta anche per coloro che non hanno colpe). Eppure, alcuni personaggi mitologici vengono da lui innalzati a un livello superiore rispetto alle altre anime, a cui è negata anche la speranza del Purgatorio: al pari di grandiose personalità realmente vissute in epoca pre o proto-cristiana (Orazio, Ovidio, Lucano, Cesare, Seneca ... oltre a medici, matematici, filosofi), miriadi di figure frutto della fantasia classica si trascinano per il primo cerchio dell'Inferno. Si tratta del Limbo, un mondo grigio e sospeso, in cui l'unico peso a gravare sulle anime disilluse è l'assenza del sole, emblema della Grazia divina. È lì che risiede Virgilio, ed è in tal luogo che egli ritornerà una volta esaurito il suo compito di guida: fra prati, ruscelli e il castello degli spiriti magni, nel quale dimora Omero e attorno a cui veleggiano, rassegnate, figure come Elettra, Ettore, Enea, la virgiliana vergine Camilla, la regina delle Amazzoni Pentesilea.
Nessuno di costoro viene costretto a subire un istantaneo processo da parte di Minosse: quel Minosse che già nella classicità, assieme ai suoi fratelli, era divenuto giudice infernale. Naturalmente, nella Commedia il mito si riveste di un velo cristiano: le anime, tremebonde, confessano i loro peccati, in base ai quali saranno indirizzati verso il giusto cerchio. La sentenza viene resa nota secondo un'inquietante modalità: la coda immensa, serpentina, di Minosse si avvolge attorno alla sua vita per un numero di volte corrispondente a quello dei cerchi che l'anima dovrà percorrere in discesa.
Ed ecco che in questa deformità grottesca s'incarna una discrepanza fra il mito originario, in cui Minosse ha fattezze prettamente umane, e la bestiale attualizzazione dantesca: sovente, infatti, l'autore sceglie di porre in relazione figure animalesche (o simil-tali) a guardia delle varie sezioni dell'Inferno, a indicare la condizione di disumanità alla quale hanno finito per degradarsi i dannati. Come non ricordare, dunque, il Cerbero (bestia significativamente con tre gole) che dilania i corpi dei golosi nel terzo cerchio, le Arpie (dai volti femminei e il corpo di rapace) che insozzano la selva dei suicidi (esattamente come lordarono le mense dei Troiani nell'Eneide virgiliana), le Furie dalle chiome serpentine che invocano Medusa alle porte della città di Dite, affinché Dante, anima viva, non possa procedere oltre?
Tuttavia, non è la degradazione allo stato ferino la peggiore in cui le anime possano incappare: si pensi, ad esempio, ai suicidi, che, privatisi della scintilla vitale che li animava, compiendo un atto che nemmeno una belva commetterebbe, si trovano costretti a tramutarsi in spettrali arbusti dai rami contorti. La trasformazione è talmente grottesca e avvilente da sembrare irreale; pertanto, Virgilio invita Dante a privare un abusto di un rametto: al subitaneo miscuglio di sangue e lamenti che ne sgorga, la mente del poeta, costernato, corre alla condanna inferta a Polidoro, mitologico principe troiano. Nell'Eneide apprendiamo, infatti, come il figlio dei sovrani di Troia, assassinato da Polimestore, si fosse tramutato nel fusto di un mirto, mentre le frecce che avevano crivellato il suo giovane corpo si convertivano in foglie. Enea, che, ignaro, ne aveva strappato delle fronde da drappeggiare su un altare sacrificale, udendo un lamento straziato fluire dall'arbusto assieme a denso sangue scuro, diede a Polidoro l'agognata pace: lo seppellì, in modo che potesse svanire nell'Ade, finalmente onorato con giusti rituali.
Alla più feroce bestialità, si ritorna, invece, nell'istante in cui c'imbattiamo nel Minotauro, la cui duplice natura viene invertita rispetto alla raffigurazione originaria: in Dante, il figlio di Minosse è rappresentato con volto d'uomo e corpo di toro. Lo scopo dell'alterazione è presto noto: dell'ibrido sventurato viene ripercorsa la storia, e alle parole di Virgilio, che rievoca la sua uccisione da parte di Teseo e l'inganno perpetrato a suo danno da Arianna, sua sorella, il Minotauro saltella via come un toro trafitto da dardi nella groppa. Soggetto e oggetto, insieme, di crudo dolore, a vigilare sulle anime dei violenti non può che essere il figlio di Pasifae.
Chirone nelle vesti di maestro
Tuttavia, non tutte le figure mitologiche semi-animalesche poste da Dante a guardia dei dannati (il poeta le preferisce persino ai diavoli propriamente cristiani, che compariranno soltanto a partire dal canto VIII) vengono rappresentate come prive di reale spessore o emblema di vizi. Si pensi, ad esempio, al centauro Chirone, tradizionalmente identificato come maestro di Achille. A lui Virgilio s'accosta in maniera accorta e rispettosa: da intellettuale a intellettuale. All'illustre centauro viene dunque risparmiato il lapidario vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, e più non dimandare, altezzosamente snocciolato da Virgilio, nelle sue varianti, innanzi a Caronte, Minosse, Flegiàs.
Virgilio sente la necessità di spiegare a Chirone la genesi e le ragioni del viaggio di Dante, affinché il guardiano acconsenta all'attraversamento del Flegetonte, da parte dei due poeti, a dorso di centauro. Naturalmente, non sarà il pedagogo di Achille a scortare Dante e Virgilio: la sua levatura gli farà propendere per affidare il compito a un compagno, Nesso. Scelta obbligata, per i conoscitori della mitologia classica: si narra infatti che tale centauro solesse traghettare i viandanti da una sponda all'altra del fiume Eveno.
Flegiàs
Deiamira rapita da Nesso
Un giorno, incapricciatosi di Deianira, moglie di Eracle, insistette per trasportare solo lei, lasciando l'eroe a guadare il fiume a piedi; fu raggiunto da una freccia di Eracle non appena tentò di fuggire con la fanciulla. Prima di morire, però, trovò il modo di vendicarsi: affidò a Deianira una veste, che lei avrebbe dovuto far indossare al marito qualora ne sospettasse un tradimento. Naturalmente, l'abito era avvelenato... Ed ecco che Nesso, bruciante d'ira e desiderio di rivalsa nell'istante del trapasso, viene collocato da Dante a guardia degli assassini, destinato a trafiggerli con un dardo (simile a quello che gli diede la morte) ogniqualvolta si sollevino dalla palude più di quanto sia loro concesso.
Ad ogni modo, se Dante viene rapidamente convinto da Virgilio ad arrampicarsi sulla groppa del centauro, è con sommo raccapriccio che si lascia, invece, trasportare da Gerione. Gerione... Una creatura aberrante e spaventosa già secondo gli antichi greci: fratello della mostruosa Echidna, sfoggiava tre teste, altrettanti busti e sei braccia, pur presentando, dalla vita in giù, fattezze comuni. Ben sapendo quanto la Commedia sia disseminata di ricorrenze del numero tre, dal chiaro valore cristiano (rimanda, infatti, alla Trinità), Dante scelse di modificare l'aspetto di Gerione, rendendolo ancor più angosciante e funzionale al suo messaggio. Ne pennellò sul volto (la prima parte del suo corpo a comparire innanzi alla nostra immaginazione) i lineamenti di un uomo onesto; poi ne descrisse le braccia pelose, il ventre serpentino, la punta della coda da scorpione. E, certo: per rappresentare la frode, subdolamente nascosta dietro un innocuo aspetto, non avrebbe potuto concepire di meglio.
Gerione
Talora, dunque, Dante si prende qualche licenza poetica, modificando la fisicità dei personaggi o alterandone la storia; l'autore immagina, ad esempio, cosa sarebbe accaduto a Ulisse se avesse ripreso a viaggiare, dopo essere approdato a Itaca: un'ultima traversata spettacolare, ben oltre le colonne d'Ercole, sino a scorgere all'orizzonte la montagna del Purgatorio... Prima di essere travolto dalle onde per la sua tracotanza, coi compagni che aveva convinto ad accompagnarlo attraverso parole ornate, ed essere posto, nell'Inferno, fra i cattivi consiglieri. Altre volte, Dante si limita a collocare personaggi già funzionali al suo scopo (esemplificare vizi o situazioni) nel luogo maggiormente indicato (il ricco Pluto a guardia degli avari, oppure Flegiàs come traghettatore delle anime nella palude degli iracondi... proprio lui che, infiammato per lo stupro perpetrato ai danni di sua figlia da parte di Apollo, ne bruciò il tempio a Delfi).
Il tempio di Apollo: bruciato secondo la mitologia
Poi, potremmo menzionare il Lethe, fiume dell'oblio, già presente in Omero e collocato da Dante nel Paradiso Terrestre, impreziosito da un significato del tutto nuovo. Oppure le invocazioni (alle Muse, a Calliope, ad Apollo) poste all'inizio delle tre cantiche, in perfetta analogia con i proemi dell'epica antica. O, ancora, la fine infausta di alcuni personaggi, come i titani, o le peregrinazioni di Manto, figlia di Tiresia, da cui, secondo Dante, deriverebbe il nome di Mantova. Ma le tappe sarebbero troppo numerose, e il nostro percorso finirebbe per perdersi nella selva delle citazioni.
Ci basti, per ora, aver preso coscienza di quanto già autori nati quasi un millennio fa amassero ispirarsi a un mondo perduto, a credenze proibite, giocando coi fondamenti della cultura occidentale per rendere maggiormente comprensibili i loro messaggi. Ci basti riflettere su come un poeta come Dante, entrato nella “mitologia” contemporanea, sia divenuto oggetto di attualizzazione (si pensi, ad esempio, a quante volte ne sottolineiamo, ripercorrendo la Commedia, gli svenimenti, la fatica e il desiderio di riposo, le pulsioni, la vergogna e le paure... pur di renderlo maggiormente vicino al nostro sentire), dopo aver scelto, egli stesso, di attualizzare miti antichi.
L'Astrolabio di Swanbook
Redazione: Desenzano del Garda
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