Incontro con Francesca Mori, l'autrice del romanzo "J."
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07 luglio 2022
INTERVISTA A:
FRANCESCA MORI
l'autrice del romanzo "J."
di Rossana Prest
È uscito da qualche mese un libro
molto interessante. La sua autrice ha adottato uno stile narrativo
assolutamente inusuale ma decisamente efficace.
Francesca Mori, è lei l’autrice
di “J.”, sua opera prima, ha raccontato la storia del protagonista come se la
stesse “narrando” per immagini anziché seguendo un classico percorso di
narrativa.
Tutto questo è molto fedele a
Francesca, scrittrice fuori dai canoni, tanto normale da essere speciale.
Cercheremo di entrare un po’
nell’intimo e nella personalità di questa eclettica donna, e lo facciamo
attraverso una breve intervista.
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Francesca, il
suo “J.” è il coronamento di un sogno, ma prima di questo sogno lei ha
camminato parecchio nel tempo e per le strade del mondo. Chi è Francesca Mori?
Per rispondere
a questa domanda credo di aver bisogno di tutta la vita. Non so ancora
esattamente chi sono, lo sto ancora scoprendo. Insegno, ma amo imparare. Sono
mamma, ma mi sento ancora una bambina di fronte alla vita. Mi sembra proprio di
non sapere ancora nulla, ne ho di strada da fare…
Da piccola
cosa sognava? Anche di essere scrittrice?
Ho diverse
fotografie con libri tra le mani (al rovescio) risalenti a molto prima che
imparassi a leggere; quindi, credo proprio che i libri siano stati miei cari
amici da molto presto. Sì, decisamente sognavo già da piccola di vivere immersa
nelle storie, non solo come accanita lettrice qual ero, ma anche come autrice. Ricordo
bene di aver sempre provato a scrivere racconti, anzi colgo l’occasione per
chiedere pubblicamente scusa a un paio di amici che fin dagli 8/9 anni ho
tediato obbligandoli ad ascoltarmi leggere e rileggere le mie storie in cui
eravamo protagonisti.
Lei è
originaria e vive in un piccolo paese del bresciano, in Val del Garza. Quanto è
stata importante la montagna nella sua infanzia e quanto lo è ora?
Mi piace tanto
stare in mezzo alle persone quanto starmene da sola. Anzi è forse questa la
condizione che cerco più di tutte, perché la compagnia degli altri, grazie al
lavoro e alla vita che faccio, non mi manca di certo. Ecco, la montagna per me
è questo: silenzio e un po’ di solitudine, condizione irrinunciabile per poter
sentire i miei pensieri. Non mi serve andare lontano, basta il bosco a due
passi, così come da piccola bastava il giardino della mia casa, il piccolo
vigneto o i campi incolti che c’erano nei dintorni. Ho sempre sognato negli
ambienti naturali, lì nascono molte idee e storie, adesso come allora.
Ha viaggiato
molto, soprattutto in America Latina, anche lì montagne. Cosa l’ha portata in
questi posti così lontani e diversi dalle sue valli prealpine?
A portarmi in
America Latina sono stati i racconti, ascoltati a bocca aperta innumerevoli
volte, di cari amici di famiglia che vivevano come volontari in Bolivia. Dopo
l’esame di maturità non ho avuto dubbi nel chiedere come regalo la possibilità
di un viaggio presso di loro. Mi hanno ospitata a Peña Colorada, un paesino a 1600
m s.l.m. in una zona quasi desertica: è stato lì che ho scoperto che le
montagne possono avere molti più colori di quanti ne conoscevo prima. Quei due
mesi sono stati un’esperienza decentrante in svariati sensi; andare dall’altra
parte del mondo ha ribaltato le mie poche certezze di quei tempi. Credo che sia
da allora che coltivo il dubbio su ciò che conosco e che cerco di prendere in
considerazione diverse prospettive di fronte a ciò che accade a me o al mondo. In
verità tornare da là ha significato poter vedere con occhi completamente nuovi
anche l’Italia, il mio paese, la nostra società. Poi, complice un ragazzo
conosciuto in Bolivia, ci sono stati diversi viaggi in Perù, arricchiti da due meravigliose
esperienze di alcuni mesi in una casa-famiglia nei dintorni di Lima, gestita da
volontarie dell’Operazione Mato Grosso. Indimenticabile. Sono stata fortunata
ad aver avuto questa opportunità ed auguro a tutti di poter viaggiare qualche
volta in questa forma, non tanto turistica ma molto vitale, nel senso più pieno
del termine.
Una laurea,
l’insegnamento (ama il metodo Montessori) che non sembra essere solo una
professione ma anche una passione. È qualcosa che fa parte del suo DNA?
Sicuramente è
qualcosa di molto presente nelle mie radici, con due nonni, la mamma e diversi
zii e cugini insegnanti in vari ordini scolastici. Insomma, non ho avuto molta
fantasia. In realtà però io inizialmente non avrei voluto insegnare, ma
lavorare in ambito educativo extrascolastico, perché temevo che la burocrazia
scolastica mi sarebbe stata stretta. In effetti, pur amando il mio lavoro, un
po’ è così, e forse per questo sono sempre alla ricerca di modalità differenti
di essere maestra, e sempre per questo cerco di dedicarmi anche ad altre
attività, tra cui scrivere.
Chi è
Francesca dentro casa?
Alterno momenti in cui mi godo lo
spettacolo, quasi mai facile, ma sempre estremamente interessante e mutevole,
di tre figli che crescono, ad altri in cui mi dispero perché il caos sembra
avere il sopravvento, visto che siamo tutti piuttosto disordinati e impegnati
in diverse attività. In breve, cerco continuamente un equilibrio, ancora non mi
rassegno all’idea di non riuscire a fare tutto.
Parliamo di
“J.”, il romanzo, e chi è J il protagonista?
J. è un
personaggio totalmente di fantasia, che per me rappresenta una persona in
ricerca, perché ad un certo punto della sua vita non può proprio più fare a
meno di capire qualcosa di più su di sé e la sua storia. Credo che capiti un
po’ a tutti noi esseri umani, prima o poi.
L’unica cosa
reale del protagonista è la sua lettera iniziale, che corrisponde a quella di
un bambino di nove anni che mi fu affidato nella prima esperienza fatta nella
casa-famiglia del paese di Ñaña, vicino a Lima, in Perù. Ho già detto che è
stata indimenticabile, vero? Anche le sue domande lo sono: io all’epoca avevo
24 anni, mi ero appena laureata, ma non avevo nessuna risposta di fronte a
quelle parole così taglienti e a quegli occhi così profondi, che mi chiedevano conto
di quello che non funzionava nel mondo e che lui, avendo vissuto l’abbandono,
soffriva in prima persona.
l racconto si
snoda attraverso momenti personali dei diversi protagonisti, da J a coloro che
fanno da contorno alla sua storia. Perché la scelta di questo stile narrativo?
Mi piaceva
pensare di dare voce a diversi personaggi, ognuno con la sua storia alle spalle
e ancora da vivere, con la sua ricerca e il suo dolore, nessuno marginale. Del
resto, i cammini delle persone sono soprattutto segnati dagli incontri con gli
altri, dalle coincidenze, dalle relazioni, e a me pare che in generale ogni
uomo sia in perenne ricerca di testimoni della propria storia. Ecco, ho cercato
di far parlare i testimoni, più o meno consapevoli, della storia che volevo
raccontare.
Nella
prefazione del libro lei scrive che si perde facilmente in montagna, afferma
che il suo senso dell’orientamento latita e l’abbandona. Eppure, camminare in
montagna sembra essere fondamentale nella sua vita: in apparenza sembrerebbe
assurdo che uno che si perde in montagna ami percorrere i sentieri… cosa
prevale, Il timore di perdersi o il desiderio di arrivare in cima? Qual è il
punto di equilibrio tra le due cose?
Di base io
sono una gran fifona: ho paura di perdermi e mi terrorizza l’altezza. Ammiro moltissimo
i veri e propri scalatori e seri appassionati della montagna, di cui mi
accontento di guardare a bocca aperta le fotografie. Per me bastano davvero i
percorsi noti, non mi stanco di stare in mezzo alla natura e non mi annoio mai ad
osservare le piccole cose: i colori dei fiori o delle foglie, le rughe dei
tronchi, i percorsi delle radici che affiorano dal terreno. Ogni volta per me
c’è qualche scoperta, anche nello stesso sentiero del giorno precedente.
Poi ci sono
altre paure, quella dell’aereo per esempio, che sembra assurda visto i viaggi
che ho fatto, che però supero semplicemente perché il desiderio di viaggiare è
più forte.
Cosa ha
lasciato in lei il suo viaggiare in luoghi, culture e genti diverse da noi?
A
parte il marito peruviano? Sicuramente la possibilità di immaginare che ogni
cosa possa essere fatta diversamente, che non siamo il centro del mondo, ma che
contemporaneamente siamo tutti interconnessi. Vi faccio un esempio: un giorno
ero nella splendida piazza di Chacas, il paese vicino al monte Huascaran da cui
proviene mio marito, e chiacchieravo con un venditore di granite. Mi raccontava
che ogni anno deve salire sempre più in quota per poter trovare il blocco di
ghiaccio da cui poi ricava il suo prodotto, grattandolo a mano, nelle piazze
dei diversi paesini in festa. Ecco, questo mi ha fatto molto ragionare, quanto
CO2 può produrre un venditore di granite delle Ande, con il suo carretto spinto
a mano? Quanto ogni scelta che facciamo impatta sulla vita di altre persone, a
migliaia di chilometri da noi, senza che noi siamo in grado di prenderne reale
consapevolezza? Sarebbe ora davvero che l’umanità capisse che nessuno è
un’isola, che siamo uniti da legami molto più stretti di quanto non riusciamo a
pensare e che la Terra su cui viviamo è davvero una casa comune di cui dovremmo
prenderci cura.
Io
stessa però, non credo di riuscire davvero ad essere così consapevole… spero
nei miei figli che nel loro stesso DNA uniscono due mondi apparentemente tanto
lontani.
Huascaran
Plaza de Chacas
Come si
immagina fra dieci anni?
Mi immagino
ancora entusiasta di imparare sempre qualcosa di nuovo, spero che sarò più
equilibrata, ho paura che, nonostante tutto, con i figli più grandi, mi
mancherà il caos che adesso è una presenza quasi costante nella mia casa. Penso
che alla fine troverò il modo di crearne altro.